Medardo Rosso e l’antico. A Roma

Legame troppo spesso rimasto in ombra, quello fra Medardo Rosso e l’antico è un dialogo fondamentale per la poetica dell’artista. La mostra allestita al Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps ne approfondisce i contorni.

Quanti grandi maestri sarebbero sconosciuti e non avrebbero prodotto nulla se gli antichi non li avessero preceduti?”. Questa frase rafforza la convinzione di Medardo Rosso (Torino, 1858 ‒ Milano, 1928) dell’importanza di guardare indietro e studiare gli scultori del passato, modelli imprescindibili nella sua pratica di scultore, quasi una sorta di alter ego di Auguste Rodin nella Parigi della Belle Époque, dove Rosso si trasferisce nel 1889. Nel 1901 comincia un “grand tour” personale alla scoperta dell’arte classica nelle collezioni tedesche tra Lipsia, Berlino e Dresda: nella sua lunga carriera eseguirà cinquanta sculture, in cera e bronzo, da più di venticinque modelli diversi. Il suo sguardo sull’antico è un lato della ricerca di Rosso poco indagato, ed è oggi oggetto dell’interessante mostra Medardo Rosso, curata da Francesco Stocchi, Paola Zatti e Alessandra Capodiferro al Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps.

LA MOSTRA

Realizzata in collaborazione con la Galleria d’Arte Moderna di Milano e con il sostegno del museo Medardo Rosso di Barzio, vuole essere una riflessione approfondita sul rapporto tra l’artista e l’antico, che viene volta per volta interpretato in senso moderno e attuale, al di là della semplice citazione.  Lo conferma una frase del 1903, in pieno fervore copista: “E poi si dirà che non rispetto gli antichi? Voi vedete che li amo ma non per copiarli… È perché sono arrivato a fare altre cose”. Basata sull’analisi di questo amore di natura non citazionista bensì interpretativa, la mostra si sviluppa su due binari paralleli. Da una parte ventinove opere di Rosso, accompagnate dalle relative stampe fotografiche, da lui scattate e parte integrante della sua ricerca, e dall’altra cinque bronzi tratti da modelli antichi, che dialogano con le collezioni archeologiche di palazzo Altemps. “Copia come paradigma di interpolazione: è noto come Rosso attribuisca più nomi alle sue copie dall’antico e, ove conosciuto, cambi l’autore generando versioni successive di uno stesso soggetto”, suggerisce Alessandra Capodiferro per indicare l’approccio di Rosso verso l’antico. Partiamo quindi dal corpus delle opere originali, allestite in maniera impeccabile: la prima opera è Bambina ridente (1889), ispirata da una bimba incontrata da Rosso in un ospedale di Parigi, presente in tre versioni ‒ una in gesso scuro, già appartenente a una collezione privata romana, e due in cera su gesso ‒ che Paola Zatti suppone derivare da studi su opere di Donatello e Verrocchio. La Rieuse (1890-1910) è il ritratto di Bianca Garavaglia, nota come Bianca da Toledo: una ballerina che si esibiva al Casino de Paris a Montmartre.

Medardo Rosso, Enfant malade, 1908 [1895], Barzio. Museo Medardo Rosso. Foto courtesy Archivio Rosso

Medardo Rosso, Enfant malade, 1908 [1895], Barzio. Museo Medardo Rosso. Foto courtesy Archivio Rosso

LE OPERE

Particolarmente notevole il gruppo dei diversi esemplari di Enfant Juif (1893), forse il ritratto di un figlio di una grande famiglia ebrea parigina. Si tratta di una delle opere di maggior successo alla quale Rosso era molto attaccato, tanto da regalarne una versione, esposta alla Biennale di Venezia nel 1914, a Margherita Sarfatti. Ma l’opera più moderna è senz’altro Ecce Puer (1906), definita da Paola Mola “un fantasma della forma” ‒ qui presente nelle due versioni in cera su gesso e gesso patinato ‒ dove l’artista arriva a trasfigurare la materia in un elemento fluido, che ricopre il volto del bimbo come un velo di luce. Si tratta, come ricorda la Zatti, di una delle opere più tormentate: commissionata dai Mond come ritratto del loro bambino, fu eseguita in una sola notte nella dimora londinese della famiglia, dopo che Rosso aveva potuto vedere il bimbo solo per un attimo, affacciandosi da dietro a una tenda. Se le cere appaiono modellate dalla luce, protagonista anche della sezione fotografica, nelle opere dall’antico l’artista insiste soprattutto nel sottolineare il dato moderno e vivo delle diverse espressioni. Rigoroso e severo Antioco III (1901), più liberi e scanzonati i volti di Nicolò da Uzzano (1895) e San Francesco (1891), entrambi ripresi da opere di Donatello, e così anche nel Memnone (1902-04), da un omonimo ritratto dell’imperatore etiope, dai tratti paffuti e massicci. “La sua ossessione di riprodurre l’attimo, cercando di avvicinarsi il più possibile alla realtà, ha conferito alla scultura un aspetto esplorativo, creando così un nuovo modo di intendere il processo scultoreo”, sottolinea Francesco Stocchi, e la mostra documenta questa ricerca per exempla ma in maniera efficace e puntuale. Merita una menzione il catalogo edito da Electa, arricchito dalla ristampa di un illuminante testo scientifico sulle copie dell’antico realizzate da Rosso, redatto da Paola Mola nel 2012.

Ludovico Pratesi

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

Scopri di più