Il gioco del mondo. Wilfredo Prieto a Napoli
Per Wilfredo Prieto la realtà quotidiana è il terreno privilegiato di una invenzione continua, di una rivoluzione che, senza soluzione di continuità, procede dal livello retorico e formale a quello più intimo, come messo in pratica nelle creazioni fortemente ludiche della mostra “Chiudere un occhio”, presentata alla Fondazione Morra Greco e visitabile fino al 30 novembre 2019.
Dal celebre ready-made duchampiano agli assemblaggi delle attuali pratiche artistiche, l’uso di materiali quotidiani e oggetti trovati nell’arte contemporanea si è evoluto verso direzioni che cercano nuove relazioni di senso tra l’oggetto e lo spettatore, che provano a sovvertire definizioni e aspettative dell’arte, o ancora che pongono domande sulla materialità in un’epoca sempre più digitalizzata e immateriale. Giocando costantemente con la relazione “arte – creazione”, l’artista cubano Wilfredo Prieto (Sancti Spíritus, 1978) riporta alla luce la natura profonda della parola “invenzione” che dal termine latino inventiònem (ritrovamento) prende più il significato di scoperta che di ideazione.
Nella mostra Chiudere un occhio, immaginata appositamente per gli spazi della Fondazione Morra Greco, l’artista veste i panni di un investigatore. Lo spazio del reale si dilata in uno spazio ludico, pieno di oggetti tratti dalla quotidianità e dall’industria, che mostrano ciò che rischia sempre di nascondersi: il senso delle cose. Il ludico diviene allora l’antidoto alle convenzioni routinarie, la risposta al non-sense nel quale è destinato a naufragare ogni tentativo di decifrazione, di costruzione di un senso univoco, che viene tuttavia tenacemente, ossessivamente perseguito. La giocosità profusa che impregna il percorso espositivo è una dislocazione che tenta di arrivare a nuove collocazioni: una pallina di polistirolo, una graffetta, un tanga, un pedone da scacchiera, una porta di calcio, un laccio, un palloncino, un seme di papaya e tanti altri oggetti convivono, trasferendo la profondità del pensiero concettuale in un’espressione artistica di lettura immediata, che rende nelle opere tutta la poetica delle mappe astrali del nostro quotidiano.
L’INTERVISTA
Ogni giorno il nostro sguardo s’imbatte in miriadi di immagini e suoni: singoli frammenti di un universo di cui è difficile tracciare i confini. La frammentazione è un tratto distintivo dei nostri tempi e sembra essere anche quello che pervade le opere che hai collocato all’interno degli spazi della Fondazione Morra Greco. Il pubblico è invitato a muoversi tra gli oggetti disseminati, quasi senza direzione, consumando con gli occhi la materia. L’esplorazione della tua “carta del quotidiano” in che modo dialoga con la dimensione spaziale in cui è immersa, e con la stratificazione storica?
“Chiudere un occhio” – in spagnolo “hacer la vista gorda” – è un progetto molto particolare, non solo per i criteri relativi alla ricerca personale degli ultimi anni, ma anche per il grande amore che è nato per Napoli, durante l’esperienza vissuta qui, in questa città unica per le sue condizioni politiche, sociali e culturali. A Napoli è molto facile sfiorare la fisicità anche nell’intangibile, nelle relazioni umane fino allo sfondo quasi barocco della città contemporanea, che si trova immersa in una continua effervescenza di forme, immagini e concetti. Tutto ciò ha influenzato e manipolato intuitivamente la mia percezione del progetto. Ulteriori componenti che ho aggiunto al percorso espositivo sono state la particolare storia dell’edificio e delle sue caratteristiche stanze e le relazioni con il quartiere, ecc. Si è così creato un contesto che ha “giocato” con lo spazio privato e pubblico, con l’interno e l’esterno, un aspetto importante che ho sviluppato anche in seguito.
Nella tua pratica artistica decontestualizzi oggetti sottratti alla vita quotidiana: una scarpa, una tunica, un bastone di legno, un ombrello, e così via. Tutti questi oggetti creano nuove possibilità di senso, ma è il tuo gesto, il gesto dell’artista, a ridefinirli, a sceglierli come oggetti d’arte. Nel loro posizionamento emerge una tensione tra un’“estetica del reale” e un’“estetica del montaggio”. L’attingere dal reale per sovvertirne il senso, nell’epoca della riproducibilità, dell’industria culturale, della mercificazione e del mito dell’immateriale rende le opere ancora capaci di una funzione critico-politica, o le riduce a “cose tra cose”?
Per me è molto importante abbandonare l’idea che la rappresentazione sia uno strumento di comprensione. Cerco piuttosto di andare nella direzione opposta, cioè di parlare alla realtà dalla realtà, quasi come in un “verfremdung” (alienazione) vecchio stile. Penso all’importanza dell’operatività che ognuno di noi mentalmente attua giorno per giorno. Da qui penso alla relazione tra gli oggetti, le azioni e i significati, a come si intreccino formando in modo naturale nuovi linguaggi, e come questi allo stesso tempo si presentino come riflessioni. In tutto questo, l’arte non è altro che una forza trainante della logica naturale. Noi artisti operiamo con un gesto minimo, come il chirurgo che fa un piccolo taglio per fermare un’emorragia con quasi nulla se non un tocco preciso.
Come una sorta di rabdomante hai cercato, recuperato e selezionato oggetti per costruire un paesaggio contemporaneo, un luogo-opera che è ambiente sensibile, insieme materico e mentale. Non chiudi gli occhi di fronte alle testimonianze che tali oggetti si portano dietro, ma le riattualizzi, e così due fari d’automobile diventano Vista lunga, vista corta, delle casse Il leone non si guarda indietro all’abbaiar del cane, e ancora un tanga Figura geometrica, ecc. In questo modo lo scenario, oltre che raccontare di un passato, di una storia, di mille storie, racconta qualcosa che dal presente si dirige al futuro grazie all’aprirsi di molteplici vie interpretative. Questa interattività tra passato, presente e futuro come si relaziona con il contesto culturale e sociale? Come evita di trasformarsi in una narrazione autonoma? Quali sono stati i tuoi criteri di selezione per la raccolta dei materiali?
I miei criteri di selezione si basano solo sulle esigenze delle idee. Il risultato del lavoro è dato da chi detta il funzionamento tecnico e fisico di una scultura. La struttura è forgiata e modellata dagli ordini del risultato. In ogni caso, una narrazione autonoma può anche essere parte dei criteri comunicativi di cui talvolta gli oggetti hanno bisogno, quindi non escludo mai meccanismi che possano arricchire le letture delle opere. Dobbiamo tener presente che l’opera ha vita di per sé, che il suo contenuto si rigenera, viene continuamente riformulato, e che la plasticità è ciò che le permette di passare da un punto all’altro nel suo tempo passato, presente o futuro.
‒ Francesca Blandino
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