Storie collettive. Intervista a Marinella Senatore
Tra pochi giorni Marinella Senatore darà vita a una delle sue performance collettive, riunendo cento persone in una processione nel cuore di Cold Spring, sulle rive dell’Hudson.
Origini campane e una carriera che l’ha portata a girare il mondo, incontrando migliaia di persone e coinvolgendole nelle sue processioni. Marinella Senatore (Cava de’ Tirreni, 1977) è un’artista che ha la multidisciplinarietà nel DNA: ha studiato violino, cinema e arte, che nella sua pratica artistica mescola con danza e teatro per dare vita a un’esperienza artistica collettiva e partecipativa che va a comporre una storia. Alla base del suo lavoro c’è un radicato interesse nelle forme di aggregazione comunitarie e nel modo in cui queste si appropriano dello spazio pubblico, della strada. Usando modelli di organizzazione sociale tratti dall’idea di assemblea, riesce a creare collaborazioni e nuove dinamiche di gruppo.
Fondatrice della School of Narrative Dance, un progetto didattico incentrato su inclusione e crescita personale, Senatore ha portato le sue performance dalla Cina all’Ecuador, ma ha sempre conservato un rapporto speciale con New York e gli Stati Uniti. In questi giorni i suoi lavori sono esposti all’Istituto Italiano di Cultura, all’interno di una mostra che raccoglie diversi artisti vincitori del Premio New York. In concomitanza con la mostra, Magazzino Italian Art ha voluto organizzare una performance dell’artista nel villaggio di Cold Spring, dove il museo di arte italiana ha sede. Sabato 16 novembre Senatore porterà oltre 100 persone del luogo in processione tra le strade della cittadina sulle rive dell’Hudson. Il progetto site specific, curato da Ylinka Barotto, coinvolgerà musicisti, ballerini, attivisti, ma soprattutto non professionisti che hanno risposto a una open call per partecipare all’iniziativa, anticipata da settimane di incontri e workshop preparatori durante i quali le persone hanno avuto la possibilità di confrontarsi con se stesse e con il potere della creazione collettiva.
Abbiamo intervistato l’artista per farci raccontare come nascono le sue performance e quali forze guidano la sua pratica artistica.
L’INTERVISTA
Nel 2010 hai vinto il Premio New York. Come è cambiata la tua carriera da allora?
Il premio fu fantastico perché mi diede la possibilità di lavorare con delle comunità in Harlem che erano molto importanti per me e da lì è nato poi il contatto con il movimento Black Lives Matter, con la Martha Graham School e con altre realtà che sono state fondamentali per me. Ma già prima del premio, New York è stata importantissima per me poiché ho sempre avuto questo interesse per l’attivismo. Questa città mi ha offerto l’opportunità di entrare in contatto con una situazione di community e con fenomeni che volevo studiare come il krump, la street dance, i rapper. L’America è stata molto generosa con me e quindi ho sempre continuato a lavorare con le persone che avevo incontrato qui. Poi c’è stata la personale per i miei quarant’anni al Queens Museum che è stata molto significativa.
Negli anni hai sviluppato una pratica artistica che si muove sulle linee di confine tra diverse discipline. Come sei arrivata a concepire questa struttura?
È stato molto naturale. Io ho due lauree in arte e sono professore in università in giro per il mondo, anche se molto part time, quindi anche l’attività didattica è importante per me. Però ho fatto la Scuola di cinematografia a Roma e sono violinista professionista perché ho studiato al conservatorio. Questi due background del cinema e della musica, dove ci sono situazioni di costruzione creativa collettiva, sono stati fondamentali nel concepire questa struttura multidisciplinare.
Ora torni a New York per presentare, il 16 novembre, una performance a Cold Spring in collaborazione con Magazzino Italian Art. Cosa ci puoi anticipare? Come si svilupperà e chi coinvolgerà?
Quando facciamo questo tipo di lavori con la School of Narrative Dance, siamo sempre invitati da un’istituzione, in questo caso l’invito è arrivato da Magazzino e, come tipico del modo di lavorare della School, lavoriamo con energie locali, facciamo una mappatura del territorio a cui segue una open call per selezionare i partecipanti. Da due settimane sono partiti i workshop guidati da coreografi e artisti e gli incontri con le persone che prenderanno parte all’evento di sabato. Sarà una lunga processione per le strade di Cold Spring.
Che cos’è la School of Narrative Dance?
Io ho iniziato a lavorare con una modalità inclusiva e una struttura corale di creazione artistica dal 2006 e nel 2013 ho fondato la scuola, che è poi il mio unico progetto performativo, la pratica è sempre quella anche se i media possono essere molto differenti. È una scuola itinerante, gratuita, basata su un sistema orizzontale di apprendimento che ha già collaborato con sei milioni di persone. Quello che fa la scuola è proporre delle sfide, lavorare su concetti a me cari come l’emancipation e l’empowerment. Quando uno ti dice che questa cosa la puoi fare, senti che vuoi sperimentarti e fare delle cose che non hai mai fatto. Ed è esattamente quello che vedo succedere ogni volta con la scuola.
Utilizzi il termine processione per definire le tue performance. Attingi Dalla tradizione cattolica? In che modo?
Sicuramente il mio lavoro attinge Dai rituali religiosi, nella forma e nella struttura. Le chiamo processioni perché, come nelle processioni, ci sono momenti in cui ci si performa in movimento, mentre si cammina, e ci sono stazioni fisse, in cui ci si ferma e accadono delle cose. Però in realtà queste strutture, come anche le tipiche parate americane o quelle militari, ma anche i carnevali, in particolare quello sudamericano, hanno un significato molto politico, non ci sono i contenuti e i concetti religiosi. È chiaro, essendo nata e cresciuta nel Sud Italia, la forma della processione pubblica fa parte del mio vissuto e mi interessa, ma quello che veramente mi interessa di questi formati è il racconto in strada. Ci si appropria della strada e si fa un racconto della memoria collettiva. Dalle mie processioni viene fuori uno storytelling che è molto cinematico, c’è un percorso che fa anche l’audience insieme a noi, l’audience si muove in un certo modo e vive l’architettura seguendo un ritmo che è molto studiato, anche se sembra improvvisato. È molto site specific, quello che succede a Cold Spring non sarà mai uguale a quello che può succedere in altri luoghi. La narrativa che si sviluppa è il racconto delle vite dei partecipanti, che sono tutte persone locali.
Alla processione partecipano le persone che hanno risposto all’open call e poi c’è anche il pubblico. Quest’ultimo viene coinvolto nella performance? In che modo? E come è diversa la loro esperienza da quella dei partecipanti?
L’esperienza di chi partecipa viene dalla School, che è basata tutta sui workshop con le persone locali. Come sempre nella tradizione della School ci sono tante arti performative che si incontrano, c’è grande focus sulla danza ma non intesa in senso atletico: anche se a volte vi lavorano dei professionisti, la maggior parte delle persone sono amateur, alla prima esperienza di movimento con il corpo. Ed è proprio il movimento e lo storytelling che il corpo fa che ci interessa. Non abbiamo coreografie preesistenti perché non puoi pensare a una coreografia senza conoscere i partecipanti. Non siamo all’Opéra de Paris, dove si concepisce una coreografia e i danzatori la eseguono, qui non ci sono esecutori, sono tutti autori, autori di se stessi. È come un’orchestra di cui io sono il direttore. Io non ho un ruolo abusivo, non ti dico cosa devi fare, i partecipanti non sono mie comparse.
Come avviene, dunque, il coinvolgimento del pubblico?
Il coinvolgimento del pubblico avviene in maniera naturale, il pubblico si immette nella performance perché ci sono degli spazi dove senti che lo puoi fare. Soprattutto perché la performance non è fatta da professionisti, si crea una specie di flusso che passa da cantante a ballerino a musicista e questo flusso fa muovere le persone. Anche se non hai lavorato con la School e non ti sei mai interessato di arti performative, durante la processione si creano momenti in cui senti che quella cosa ti appartiene, che anche tu puoi fare delle cose, non c’è la divisione attore pubblico.
Cosa pensi spinga le persone che rispondono alla open call a partecipare in prima persona?
Ho lavorato in oltre 23 Paesi con più di sei milioni di persone, comunità così diverse per costumi, idee, politiche, ma l’elemento comune è la solitudine, la mancanza di senso di appartenenza a qualcosa, il bisogno estremo e urgente di sentirsi parte di una comunità.
La folla sembra essere parte integrante della pratica performativa che proponi. Quali dinamiche ti interessano della folla?
Io rifiuto completamente il concetto di massa, il fatto che abbia numeri enormi quando lavoro è un risultato che non è un obiettivo. All’inizio del mio lavoro non mi aspettavo che avrei raggiunto questo numero di partecipanti. E in realtà il mio approccio non cambia mai, che siano dieci o che siano mille. E anche quando sono stati tre milioni [per un progetto con la Collezione Peggy Guggenheim, Senatore ha lavorato con 8.000 scuole su tutto il territorio italiano, N.d.A.) non è cambiato molto, anche se le modalità di lavoro lì erano diverse perché era soprattutto online. Anche quando lavoro con grossi numeri di persone, li conosco tutti: ho questa modalità anche perché sono il garante della loro dignità.
In che senso?
Quando sei dentro la Scuola ci sono tanti blocchi che si sciolgono, ma è importante avere un punto di riferimento e loro guardano a me, perché garantisco la loro dignità. Quindi non è la massa che mi interessa, ma il concetto di assemblea, la massa è indistinta, invece qui c’è un’individualità. Il mio lavoro consiste nel far venire fuori l’individualità in maniera corale, come in un’orchestra, ogni strumento ha la sua identità e ogni musicista ha la sua sensibilità. Ci sono individualità importantissime, ma un fine comune: suonare quella stessa sonata o, nel caso del cinema, dare vita a quella sceneggiatura, raccontare quella storia.
Un altro concetto ricorrente nel tuo lavoro è quello di protesta. Che tipo di protesta ti interessa e perché?
Prendere la strada in modo creativo, come fa per esempio il carnevale. Io lavoro molto in Brasile e per esempio la samba, che oggi è considerata una cosa esotica e carina, in realtà nasce come movimento di resistenza dei brasiliani di origine africana. Mi interessa il concetto di assemblea, l’idea di creare comunità temporanee, che poi non sono così temporanee perché molti di quelli che partecipano ai miei progetti poi restano in contatto e creano nuove comunità dentro la loro comunità. E questo ha un senso politico. Io sono molto femminista e sono un’attivista, è parte della mia vita ma non impongo queste cose, non ne parlo, parlo di emancipazione attraverso la creazione artistica. Tuttavia il prendere possesso della strada e farlo in un certo modo resta un gesto politico.
Facci qualche esempio.
Per esempio ultimamente lavoro molto con i parkour, che molti vedono come una cosa che ha a che fare con acrobazie, gesti atletici, in verità è movimento di resistenza incredibile, che legge la città e performa con la città. Sono molto addentro al parkour come ad altre danze di emancipazione che creano identità e cultura. Come dicevo sono anche un’attivista, lavoro molto con movimenti come Pussy Riot, Black Lives Matter, Young Lords, per cui ho questa matrice, ma, quando dico empowerment della persona, intendo riprendersi una dignità. In un sistema molto protetto come quello della creazione artistica, dove puoi sbagliare e non succede niente, quello che cerco di fare è di evidenziare le asimmetrie che ci sono nella nostra società. Sono asimmetrie quelle subite dalle donne che vengono pagate meno degli uomini, così come è un’asimmetria l’aver annullato nel periodo coloniale intere culture che poi nel periodo post coloniale si sono emancipate proprio con le arti performative, hanno creato la propria identità con la danza, il canto, la parola parlata.
Che ruolo ha l’arte visiva in tutto questo?
Le arti performative le chiamo così per convenzione, ma per me tutto è arte. L’arte non è definita dalle forme dei media che usa, è definita dalla concettualità e dai movimenti che può fare nella società. Poiché raccolgo così tante esperienze, in testa ho immensi archivi di memorie, pensieri, frasi, energie. E quindi anche nella mia produzione più object based lavoro moltissimo con mixed media perché devo stratificare, devo sovrascrivere. Lavoro con il collage e con grandi installazioni, a volte con la fotografia e molto spesso con il video, che è il primo media che ho utilizzato. Però credo che la performance sia in sé un prodotto commerciabile. Non sono d’accordo con chi la ritiene un’arte effimera. La performance si può vendere, si vendono dei protocolli, le istruzioni per rifarla. Non ritengo che abbia meno dignità di altre forme d’arte, come spesso si sente dire.
‒ Maurita Cardone
(ha collaborato Chiara Pirri)
https://www.magazzino.art/events/marinellasenatore
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati