Fra tavola rotonda e performance. Il caso Dissect a Paris Photo
La 23esima edizione della fiera internazionale della fotografia d’arte tra le più attese del settore, Paris Photo, non è solo più di 68mila visitatori, 180 gallerie e 213 espositori provenienti da 31 Paesi, ma anche un ricco programma di incontri e conversazioni che si snoda tra: “La Plateforme”, forum sperimentale su temi legati alla fotografia e “The artist Talk”, incontri informali con gli artisti, al primo piano della navata del Grand Palais.
In questa edizione della fiera parigina, l’opera fotografica assume sempre più le sembianze dell’oggetto d’arte, non più strumento di impronta e archivio del reale ma opera non riproducibile, dalle caratteristiche pitturali, sculturali e in alcuni casi anche performative. Eminente in questo senso è il lavoro dell’artista Meghann Riepenhoff, classe 1979, rappresentata a Paris Photo dalle gallerie Yossi Milo di New York e Jackson Fine Art di Atlanta. Il lavoro dell’artista americana è stato, nel giorno di chiusura della fiera, l’oggetto d’indagine di Dissect, esperimento tra ricerca, performance e tavola rotonda ideato da Emanuele Quinz e Samuel Bianchini.
Potremmo riassumere la pratica della Riepenhoff come la volontà di mettere a confronto la fotografia con l’ambiente circostante, naturale o artificiale, in una dimensione di impermanenza. Ne emergono oggetti fotografici su grande scala, che assumono le sembianze di pitture astratte in cui a ricorrere sono le varie tonalità del blu, del verde e dell’oro.
Nei protocolli ideati dall’artista grandi fogli fotografici, intrisi delle sostanze chimiche utilizzate in particolare per le cianotipie, sono esposti all’azione dell’ambiente: immersi nelle onde del mare e poi abbandonati sulla spiaggia ‒ nella serie Littoral Drift ‒, adagiati sulla corteccia di un albero sotto i raggi del sole ‒ nel caso di Ecotone ‒, abbandonati tra i resti dell’attività umana (la spazzatura prodotta dall’artista stessa). Le opere in tal modo create sono oggetti “viventi”, che non solo assumono le sembianze di opere pittoriche astratte ma ancor di più possiedono una qualità materica, poiché integrano resti e particelle degli elementi esterni, naturali o artificiali, a cui sono esposti (sabbia, peli di animali, polveri…).
Oggetto di Dissect è in particolare un’opera della serie Chronographs, dalla forma di un libro, prodotta attraverso il trattamento di ognuna delle pagine con un prodotto cianotipico reattivo alla luce. L’artista ha in seguito richiesto al gallerista che avrebbe esposto l’opera a Parigi di voltare una pagina al giorno in modo che ognuna di esse fosse esposta all’azione della luce per un tempo preciso. Ogni pagina dell’opera è quindi il risultato del tempo inteso come durata (un giorno per pagina) e del tempo meteorologico (la quantità di sole che ha agito su ogni pagina).
DISSECT
Dissect è un dispositivo originale ideato dallo storico dell’arte e esperto di design Emanuele Quinz e dall’artista e studioso Samuel Bianchini all’interno del gruppo di ricerca Reflective Interaction d’EnsadLab (Ecole nationale supérieure des Arts Décoratifs) e della piattaforma di ricerca tra arte, scienza e società Chaire. Arts et Science, che vede uniti il Politecnico di Parigi e l’Ensad. Dissect è il desiderio di rinnovare, contaminare e spettacolarizzare la pratica della tavola rotonda, creando un dispositivo capace di mettere a confronto discipline diverse secondo le modalità del performativo. L’esperimento, che prende ispirazione dalle lezioni di anatomia, ha visto la sua prima presentazione pubblica al Centre Pompidou, in occasione della mostra La Fabrique du vivant, lo scorso marzo.
Sulla scena di Dissect un dispositivo semplice, ideato da Samuel Bianchini e composto da un tavolo bianco simile a quello utilizzato per le autopsie, sedie sui due lati, uno schermo di proiezione ovale sul fondo, una telecamera mobile sul tavolo.
Vestiti di nero e muniti di guanti i sei esperti: Emmanuel Alloa (filosofo), Federica Chiocchetti (scrittrice e curatrice), Luce Lebart (storica della fotografia e curatrice), Emanuele Quinz, Pascal Viel (chimico ricercatore presso CEA, responsabile energie atomiche ed energie alternative), Dork Zabunyan (storico dell’arte e del cinema), sono posti l’uno di fronte all’altro e tutti dinanzi all’opera in analisi, in una conformazione ben diversa da quella delle abituali tavole rotonde. Il dialogo sull’opera parte da una volontà di descrizione (che è sempre interpretazione) dell’opera Chronograph. Dopo una breve introduzione volta a esplicitare gli intenti multidisciplinari dell’esperimento, e, eccezionalmente in quest’occasione, la presenza dell’artista che descrive il suo lavoro, gli interventi si susseguono guidati dall’improvvisazione tanto quanto da una partitura precostituita.
Il pubblico ricopre un ruolo spettatoriale, interpellato solo dall’immagine video, che espleta una funzione interattiva. Maneggiata dai conferenzieri, la telecamera è rivolta verso i vari elementi in gioco: fotografie, libri, strumenti a sostegno della discussione e l’opera oggetto di analisi, quest’ultima ripresa in piani larghi o primi piani su particolari.
UN FORMAT CHE FUNZIONA
Il processo della cianotipia di cui si serve l’artista prevede l’utilizzo dell’pirosolfato di sodio per fissare la materia: questo prodotto non è stato ancora utilizzato sull’opera in analisi, motivo per cui Chronograph è un’opera in continuo mutamento. Il rapporto tra la fotografia e il dato “performativo” dell’opera sembra essere il fil rouge della discussione su un lavoro che porta con sé le tracce del paesaggio, che evolve con il tempo, che “vive”.
Lambito anche il ruolo dell’umano in un tale processo di produzione (quanta componente umana è contenuta nell’opera?) e poi quello del mercato: come vendere un’opera il cui processo di produzione è evolutivo per statuto? Un’opera che non è fissata in uno stato definitivo?
Se il procedimento utilizzato dalla Riepenhoff non rappresenta una novità assoluta ‒ come fa notare Emmanuel Alloa, già Edvard Munch aveva l’abitudine di lasciare i suoi quadri alle intemperie della natura e notiamo in fiera che la cianotipia sembra essere una tecnica in voga di questi tempi ‒, il dispositivo di ricerca ideato dai due italiani, Quinz e Bianchini, è invece in grado di creare un vero cambiamento. Uno strumento per indagare le pratiche artistiche nel loro contesto e portare uno sguardo all’opera intesa come “sistema” aperto sul fuori, capace di creare un impatto con l’ambiente esterno e quindi con la società, in un constante processo di negoziazione con il reale. Una esperienza costruttiva sia per il pubblico sia per i ricercatori, che permette allo stesso tempo analisi e divulgazione.
Possiamo ritrovare Dissect prossimamente al Tieranatomisches Theater di Berlino, un vero e antichissimo teatro anatomico.
‒ Chiara Pirri
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