Nel luglio del 2011 Copenaghen fu ferita da un nubifragio che mise in ginocchio la città.
In meno di tre ore fu colpita da una bomba d’acqua che causò, come prevedibile, danni ingenti e costi altissimi. La municipalità ammise i propri errori confessando che la programmazione prevista dal piano precedente, del 2009, si era rivelata inadeguata. Si corse, dunque, ai ripari attraverso una serie di interventi capillari, molteplici e tra loro collegati, volti a prevedere e affrontare emergenze ambientali, quali la realizzazione di superfici impermeabili, di micro parchi di quartiere diffusi nel tessuto urbano, l’incentivazione del dialogo con il mare, l’ampliamento delle coperture dei sistemi fognari e la realizzazione di scantinati impermeabili. L’evento catastrofico divenne, dunque, come in molte altre città europee quali Rotterdam, Barcellona, Brema, Monaco, ulteriore motore generatore di un processo di trasformazione. Trasformazione che da tempo ha impegnato la capitale danese e basata sullo sviluppo sostenibile, sulla tutela del territorio e non sulla formula preoccupante di un mero, quanto miope se non irresponsabile, sfruttamento dell’ambiente.
Non quindi o non solo polemiche sotto il cielo danese, a ridosso di quell’estate del 2011, ma l’attuazione di una fase operativa, concreta e, soprattutto, non casuale, episodica. Ciò a partire, anche, da quel drammatico evento.
I recenti fatti di Venezia, del Trentino, della Toscana e del Lazio, unitamente ai non meno importanti danni altissimi patiti dal sud della penisola, da Matera Capitale della Cultura 2019 alla Sicilia, mi fanno tornare in mente l’esempio danese. Esempio che, per concatenazione, mi rimanda a quanto scritto da Stefano Monti su Artribune il 16 novembre quando, opportunamente, l’autore indicava nella “tragedia” in atto che sta investendo su più fronti la penisola qualche passaggio operativo. Una sorta di pars construens che sensibilizzi il cittadino, che lo informi, al di là delle giuste indignazioni e polemiche, su quanto concretamente si possa fare anche in tempi stretti. Un andare oltre le recriminazioni pur comprensibili, per tradurre, per trasformare le calamità in nuove possibilità.
Non so se Copenaghen riuscirà a vincere la sfida, sebbene molti passaggi siano già realizzati e sotto gli occhi di tutti. Certo non posso esprimermi, non avendo competenze specialistiche, sulla validità, nel futuro, delle soluzioni adottate. E soprattutto se le soluzioni adottate siano le migliori tra quanto oggi ci offrono le tecnologie. Chiarisco, inoltre, per sedare ogni possibile fraintendimento, che ogni città racchiude una storia autonoma che la rende unica e che le soluzioni adottate in un luogo non sono necessariamente esportabili in altri contesti.
Tuttavia è certo che la capitale danese offre, indipendentemente dai molti problemi che pure ha in comune con molte altre città europee, spunti di riflessione interessanti intorno a temi quali lo smaltimento dei rifiuti, la salute, il tempo libero del cittadino, il rapporto con il mare, unitamente al progressivo, quanto necessario, abbattimento delle emissioni. Ma, soprattutto, chi la amministra ha capito che la mancanza o l’eccesso d’acqua saranno, sono, una delle maggiori sfide che non in un lontano futuro ma nell’immediato deve, dovrà affrontare l’umanità. Partendo da questo presupposto, e proprio perché il confronto è sempre occasione di crescita, è interessante ragionare, alla luce delle emergenze che ripetutamente affliggono la nostra penisola, sul concorso, indetto dopo l’alluvione dell’estate del 2011, per la sistemazione del quartiere della capitale danese Nørrebro vinto dallo studio di architettura sostenibile SLA Architects.
“Andare oltre le recriminazioni pur comprensibili, per tradurre, per trasformare le calamità in nuove possibilità”.
Un progetto realizzato con il sostegno della municipalità su un’area di 85mila metri quadrati a forte rischio di allagamento e che ha individuato, assecondando il naturale percorso dell’acqua piovana, un luogo di smaltimento nel vicino lago di Peblinge. Ma non solo: quella che potrebbe apparire solo come una soluzione tecnica diviene un interessante modello in cui l’ingegneria idraulica dialoga con l’ambiente, con l’architettura del paesaggio, con la botanica, con la biologia, con il verde e, ultimo ma non ultimo, con il contesto sociale.
Nørrebro è opera idraulica e arredo urbano. Nørrebro è tecnologia e al tempo stesso intervento pubblico di ampio respiro. L’acqua, simbolo archetipo primordiale pregno di molteplici significati, come insegna Gilbert Durand nelle Strutture antropologiche dell’immaginario, non è più solo minaccia, ma può divenire, anche grazie alle tecnologie di cui disponiamo e al “dialogo” – ove possibile ‒ con la natura, un’opportunità. I cambiamenti climatici repentini, come gli scienziati ripetono da tempo, e come la memoria breve di ciascuno di noi conferma, proprio perché più o meno direttamente coinvolgono la cittadinanza, sono e saranno, purtroppo, sempre più frequenti. Ciò potrebbe comportare dei costi alti sia in termini di vite umane sia sul fronte finanziario; basti pensare ai rischi e alle conseguenze di blackout elettrici in un mondo globale e iper-connesso qual è il nostro, o ai danni alle infrastrutture, alla salute, alla serenità del cittadino. Per non tacere, e certo non è un aspetto di minore rilevanza, ai danni ai beni culturali. Un tessuto vitale, importante, questo, che testimonia la memoria culturale, la memoria condivisa di una comunità, unitamente alla memoria personale. Un tessuto inestimabile che non possiamo certo trascurare, sia per rispetto verso noi stessi sia per le generazioni future.
Di chi è il presente, dunque, di chi è la memoria?
‒ Gabriella De Marco
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