Zehra Dogan e l’orrore delle carceri turche. A Brescia
Museo di Santa Giulia, Brescia – fino al 1° marzo 2020. Quasi tre anni di carcere per una vignetta su Twitter. È questa la terribile realtà della Turchia odierna, se si è curdi, donne e per di più giornalisti. Una mostra rocambolesca racconta una vicenda di resistenza e prigionia.
Nel sud-est della Turchia, a Diyarbakir, sulle rive del fiume Tigri
di mesopotamica memoria, può giungere oggi il messaggio della pittura europea tra Otto e Novecento e, in particolare, di Gustave Moreau, Odilon Redon e Pablo Picasso, attualizzandosi nelle opere di un’artista curda poco più che trentenne?
La risposta non può che essere positiva, se si considera che Zehra Dogan (Diyarbakir, 1989) si è diplomata in Arte e Design presso la locale Università Dicle e che “l’ascendenza della cultura francese è stata, e continua a essere, molto sentita, nelle scuole d’arte turche”, spiega la curatrice Elettra Stamboulis in occasione dell’inaugurazione della mostra Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche.
3 ANNI DI CARCERE
Lo dimostrano le sessanta opere pittoriche e grafiche qui presentate dall’artista, realizzate su ogni tipo di supporto di recupero – tessile e cartaceo – e con materiali improvvisati nei
1.022 giorni prigionia da lei vissuti in tre diverse carceri turche: Mardin, Diyarbakir e Tarsor.
Il capo d’imputazione a suo carico, incitazione al terrorismo, nacque dal disegno postato su Twitter in cui Dogan reinterpretava sarcasticamente una foto della conquista turca della città curda di Nusaybin. Ad aggravare la situazione concorse l’essere anche giornalista – suo, a esempio, l’impegno nel denunciare le persecuzioni delle donne Yazide del nord dell’Iraq – nonché l’aver cofondato nel 2010 l’agenzia di stampa JINHA, chiusa nel 2016.
SOGNO E SANGUE
La sofferenza scaturita dalla reclusione – spiritualmente condivisa con molte altre donne accusate di reati politici – scatenò in lei l’urgenza drammatica di dar corpo ai suoi stati d’animo, spingendola ad attingere al grande incubatore d’immagini che è il sogno. Prova ne sono le aggrovigliate figure umane e animali cariche di rimandi allusivi, le visioni in continuo dinamismo metamorfico, la presenza del tema iconografico dell’occhio, tipico della cultura simbolico-surrealista europea ma anche leitmotiv della tradizione orientale, con le sue valenze apotropaiche e amuletiche.
Ma l’aspetto più impressionante è la velocità del segno grafico, che non rivela ripensamenti e scorre leggero sopra e sotto il magma cromatico dagli inquietanti miscugli – cenere di sigaretta, tè, sangue mestruale, curcuma, succo di rucola, buccia di melograno – creando una trama segnica raffinatissima e ricca di invenzioni.
DISEGNI TRANSFUGHI
Come questi e altri disegni poterono uscire dalle carceri, a dispetto dei controlli di polizia? La questione non è del tutto chiara. Tra la biancheria da lavare che una persona amica, unico contatto con il mondo esterno, ritirava per portarne di nuova? Forse. Questi non sono che dettagli. Oggi Zehra vive in Europa e guarda al futuro, pensando alla sua terra, il Kurdistan, così ricca di storia e sofferenza.
‒ Alessandra Quattordio
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