Studiare la censura per capire la società. Intervista al collettivo Radha May
All'ICA di Milano, fino al 2 febbraio 2020, è in corso la mostra del collettivo Radha May, composto da Elisa Giardina Papa, Nupur Mathur e Bathsheba Okwenje.
La video-installazione all’interno della project room di ICA, a cura di Claudia D’Alonzo, è l’ultima tappa di When The Towel Drops Vol 1 | Italy, un interessante progetto che riflette sul tema della censura e sulla visione della donna nel cinema italiano del dopoguerra. Abbiamo intervistato le autrici per farci raccontare qualcosa di più.
Ci potete raccontare come e quando nasce l’idea del progetto When The Towel Drops?
When the Towel Drops nasce quasi contemporaneamente al collettivo Radha May. Ci siamo incontrate a New York nel 2012 e abbiamo deciso di lavorare insieme per un comune interesse sulle questioni di genere, la relazione tra potere e archivi, e le narrative minoritarie o storicamente definite come subalterne. In quel periodo, Massimo Riva, il direttore del Dipartimento di Studi Italiani della Brown University, ci ha parlato dell’archivio della censura cinematografica italiana, un deposito ministeriale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali dove sono stati conservati tutti i tagli effettuati dalla Revisione Cinematografica a partire dal 1913. Si tratta di scene rimosse da circa seimila pellicole Italiane e straniere distribuite in Italia. Nell’estate del 2014 Elisa è andata alla Cineteca di Bologna, dove al tempo era depositato il materiale, e ha passato circa due mesi a digitalizzare le scene in 35mm e consultare il database di Italia Taglia e CineCensura, dove sono anche raccolti i fascicoli che raccontano l’iter amministrativo relativo alle valutazioni della commissione. Una volta tornata a New York abbiamo selezionato e rimontato le scene censurate in un film di circa 10 minuti che è stato presentato come installazione in pellicola 35mm al Granoff Center for the Creative Arts a Rhode Island (2015), come performance a UnionDocs a New York (2017) e infine come video-installazione per lo Spring/Break Art Show sempre a New York (2018). Finalmente siamo riuscite a portare il lavoro in Italia grazie a ICA Milano, alla Fondazione Lazzaretto e alla curatrice Claudia D’Alonzo.
Qual è stata la scoperta più interessante che avete fatto durante il vostro processo di ricerca all’interno degli archivi della censura?
Fin dall’inizio abbiamo deciso di navigare l’archivio della censura con un’attenzione particolare alla regimentazione del corpo femminile e queer. Eppure, mentre passavamo in moviola metri e metri di pellicole tagliate, ci siamo accorte che il vero tabù del cinema italiano degli Anni Cinquanta e Sessanta era il corpo dell’uomo, non quello della donna. Nelle scene censurate che abbiamo recuperato, le figure maschili sono sempre completamente vestite. In giacche e cravatte, cappotti e cappelli, gli uomini di questi film guardano, baciano e rincorrono protagoniste femminili che sono spesso appena coperte da sottovesti, pagliaccetti e lingerie di varia fattura. Il contrasto è paradossale. Il massimo concesso agli uomini sembra limitarsi a nervosi allentamenti di colletti o a veloci comparsate in pigiama e vestaglie. Per vedere un corpo maschile svestito è necessario arrivare al 1970, con Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni e la famosa scena censurata del threesome girato nella Valle della Morte, in California. Oppure bisogna aspettare la metà degli Anni Settanta, con le scene di nudo maschile integrale tagliate da film come Il fiore delle mille e una notte di Pier Paolo Pasolini o Satansbraten di Rainer Werner Fassbinder.
C’è una censura che riguarda una scena di parto…
Sì, un’altra scoperta sorprendente è stata trovare un taglio effettuato su una scena di parto in Alle soglie della vita di Ingmar Bergman (1958). Nonostante la donna partoriente sia quasi completamente coperta ‒ si vedono solo le gambe fino alle ginocchia ‒ il Comitato di Revisione decise che la scena doveva essere eliminata a causa del suo “carattere impressionante” e che l’intero film sarebbe stato vietato ai minori di sedici anni per “la scabrosità della materia”. È importante ricordare che Bergman aveva ottenuto al festival di Cannes il primo premio per la regia di questo film, e le tre attrici protagoniste, Thulin, Andersson e Dahlbeck, avevano vinto un premio ex aequo per la loro interpretazione. Nei mesi in cui abbiamo lavorato all’archivio abbiamo anche trovato una scena censurata di un parto di un delfino. Avremmo voluto includerla nel montaggio, ma non siamo riuscite a rintracciare il dossier relativo al film.
Avete anche condotto un workshop lo scorso maggio a Milano. In che modo avete coinvolto i partecipanti? I risultati di questa esperienza sono visibili in mostra?
I risultati sono visibili nella performance presentata a Il Lazzaretto all’inizio di novembre, una rivisitazione di quella fatta a New York nel 2017. Nella performance un gruppo di diciotto persone ha letto degli estratti dai dossier del Comitato di Revisione cinematografica, intervallati dalla proiezione di brevi loop delle scene censurate. Durante il laboratorio, svolto con una quindicina di partecipanti, abbiamo ripassato al vaglio tutto il materiale che avevamo recuperato a Bologna nel 2014. La domanda che ci ha guidato è stata cosa voglia dire oggi reintrodurre nella memoria collettiva ciò che è stato rimosso nell’Italia del dopoguerra e degli Anni Sessanta. Ovvero, in che modo riportare al visibile immagini celate per decenni possa modificare la percezione contemporanea delle questioni di genere e della sessualità. Infatti, questi tipi di archivi diventano spesso accessibili solo a distanza di tempo, quando si pensa che ciò che è stato depositato al suo interno non possa più creare scandalo o mettere in discussione leggi e istituzioni. Quello che ci siamo chiesti, quindi, è quali immagini e quali testi potessero essere utili a riaprire un dibattito contemporaneo su come i confini di accettabilità e devianza vengano definiti.
Quali erano i criteri secondo cui la censura operava? Vi siete fatte un’idea?
Durante il workshop ci siamo accorti che la censura di quegli anni tagliava e celava, ma soprattutto cercava di regolare l’intensità delle scene, di moderarne l’eccesso. Le donne in Paris la nuit, ad esempio, secondo la Revisione appaiono “in abbigliamento eccessivamente discinto”; la danza di Chelo Alonso in La strada dei giganti diventa ai loro occhi “eccessivamente prolungata” e il bacio tra Alberto e Fedora ne I Delfini è percepito come “eccessivamente lascivo”. In altri casi, invece, il comitato abbandona questo atteggiamento paternalistico per punire senza indugio. Al film L’assassinio di Sister George di Robert Aldrich (1968), un cult del cinema LGBTQ americano degli Anni Sessanta, viene negato il nulla osta. Il tema dei rapporti lesbici viene decretato come “palesemente contrario al buon costume”. Il film uscirà nei cinema italiani un anno dopo con il divieto ai minori di diciotto anni e solo dopo l’apporto di diversi tagli, uno dei quali è incluso nella nostra video-installazione.
Ho letto, a proposito della vostra modalità operativa, che vi servite di “metodologie prese in prestito dall’antropologia, dalla storiografia e dal giornalismo”. Potete spiegarci un po’ meglio in che modo queste metodologie vengono applicate?
Le nostre opere hanno tempi di ricerca molto lunghi, che sono spesso necessari per ottenere i permessi di consultare archivi e documenti non facilmente accessibili al pubblico o per entrare in contatto e conversazione con studiosi che lavorano sui temi che vogliamo affrontare. Ad esempio per When The Towel Drops la ricerca si è prolungata per circa due anni prima di poter iniziare a lavorare sull’opera definitiva.
Negli ultimi vent’anni il tema dell’archivio è stato esplorato a fondo nell’ambito dell’arte contemporanea, spesso con l’obiettivo di mettere a nudo le strutture di potere che regolano la sua nascita e la sua gestione. Ci sono opere / artisti / intellettuali che vi hanno ispirato in questo senso?
Il nostro lavoro sugli archivi è influenzato principalmente dagli approcci femministi, queer, postcoloniali e di critical race. In questi campi di studio l’archivio è spesso ridefinito come luogo e strumento di potere in cui le narrazioni minoritarie vengono escluse. Ci si concentra su quello che l’archivio ha deciso di non preservare e quindi di escludere dalla narrazione storica ufficiale. Nel nostro caso però abbiamo dovuto confrontarci con il problema opposto. Il paradosso costitutivo del nostro archivio risiede nel fatto che l’azione censoria in Italia ha preservato ciò che invece desiderava eliminare. L’altro affascinante paradosso di questa collezione e che le immagini raccolte in essa hanno subito un processo di feticizzazione a causa della censura, non a priori. La censura stessa, trasformandole in oggetti illeciti e inaccessibili, ha attribuito loro un surplus di valore, le ha rese estremamente desiderabili. Questa è la ragione per cui con When the Towel Drops non abbiamo voluto spettacolarizzare le immagini censurate, ma abbiamo cercato di mettere in mostra l’archivio stesso con i suoi presupposti ideologici. Nella video-installazione presentata a ICA, ad esempio, il montaggio delle scene censurate è proiettato direttamente sul muro e con moderata luminosità. Le immagini si stemperano sulle crepe e gli strati delle tinteggiature precedenti ancora visibili sulle pareti dell’edificio industriale riadattato a luogo espositivo e la proiezione fa da sfondo alle pile dei dossier ministeriali. Per noi le scene censurate del cinema di quegli anni sono significative solo in relazione alle logiche istituzionali che le hanno volute eliminare.
Quali sono le prossime tappe previste? Altri archivi da esplorare?
L’archivio della censura cinematografica indiana. Nello specifico i tagli effettuati nel periodo storico appena successivo alla dichiarazione di indipendenza dall’Impero britannico del 1947. Ovvero, in un periodo storico in cui la nazione, che in India viene spesso immaginata e metaforizzata al femminile, è in via di definizione. Nupur e Bathsheba hanno visitato l’archivio l’anno scorso e stiamo adesso cominciando a studiarne i documenti. Per il terzo volume ci concentreremo invece sul Sud Africa, durante l’ultimo periodo dell’apartheid, la politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca e rimasta in vigore fino al 1991. Quello che ci interessa non è solo la censura, ma l’azione regolamentativa sull’immaginario cinematografico perpetuata in periodi di forte trasformazione culturale e politica. Questa è la ragione per cui in Italia ci siamo concentrate sul periodo storico che va dal dopoguerra alla fine degli Anni Sessanta. Ovvero un periodo che inizia con la liberazione dal regime nazifascista e finisce nel mezzo delle lotte studentesche, operaie e femministe del Sessantotto. Molte cose in questi venti-trent’anni furono messe in discussione e tra queste, sicuramente, la rappresentazione del genere e della sessualità.
‒ Valentina Tanni
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