Educazione al margine. L’editoriale di Claudio Musso
Quanto tempo dedichiamo a osservare ciò che ci circonda? A quanto pare, sempre meno. Eppure dovremmo tornare ad allenarci a riflettere su quello che guardiamo.
Passeggiando per Ginevra, fra una strada e l’altra, mi sono imbattuto in una cosa molto strana. Sulle pellicole che ricoprivano alcune cabine per la rete elettrica erano stampate vere e proprie lezioni di teoria della percezione visiva. In successione si trovavano tavole esplicative di anamorfosi, illusioni ottiche, deformazioni visive, trompe l’œil, cromatologia, nonché una intera “lavagna” dedicata a figure e spazi impossibili, quelle rese celebri dalle incisioni di Escher, per capirci.
Questo incontro fortuito mi ha portato a riflettere sulla presenza (o, meglio, sull’assenza) di esercizi di analisi della visione nella vita quotidiana. Quanto tempo dedichiamo a riflettere su ciò che stiamo guardando? Ne abbiamo poco, è vero, qualcuno direbbe che ne avremo sempre meno: piuttosto che insistere sulla concentrazione, cediamo volentieri allo scroll e passiamo oltre. Se è vero che viviamo nella cosiddetta “civiltà delle immagini”, è altrettanto vero che alle immagini spesso riserviamo sguardi sbadati, occhiate veloci. E non lo facciamo solo con quelle che riteniamo banali o poco interessanti: usiamo lo stesso approccio anche con quelle “in cornice”.
Quale terapia, allora? Non possiamo offrire soluzioni definitive, di certo una delle strade da percorrere sarebbe quella di “tornare a vedere”, in senso letterale si intende, cioè di ri-vedere.
“Vedere è una pratica di ri-attivazione, di attese passive e improvvise illuminazioni, come quando nella lettura si torna sullo stesso capoverso, a distanza di anni, alla ricerca della comprensione”.
Antonio Martino, in uno degli scritti raccolti da Pendragon in Disegno dal vero, avanzava una simile proposta per la lettura, anzi per il ri-leggere. “Si rilegge perché siamo stanchi dell’editoria delle classifiche e di un abbassamento della qualità. Questa è una buona ragione. […] Ma la ragione che sento più vicina mi dice che si rilegge perché guardiamo noi stessi, con il distacco e la saggezza necessaria che il tempo ha scolpito in noi, scoprendo il nuovo che siamo oggi. Leggiamo ora nello stesso libro, quello che eravamo”. Se in questa proposta sostituissimo la parola libro con immagine, troveremmo sicuramente alcuni consigli utili sulle ragioni di un necessario ritorno alla visione, di una re-visione.
Già in altre sedi, altri pareri più illustri del mio hanno sottolineato l’importanza di quella disciplina che un tempo si chiamava educazione all’immagine e che trovava posto nei corsi di studio fin dalla scuola primaria. Vedere è allenarsi al vedere, esercitare lo sguardo, studiare i meccanismi della visione, ma è anche e soprattutto non perdere l’abitudine a sorprendersi e a farsi sorprendere, come può capitare all’angolo di una strada. Vedere è inoltre una pratica di ri-attivazione, di attese passive e improvvise illuminazioni, come quando nella lettura si torna sullo stesso capoverso, più e più volte, a distanza di anni, alla ricerca della comprensione.
Allora non aspettiamocela solo dalla scuola. Facciamo sì che l’educazione alle immagini ritorni a essere la linea da seguire e che non rimanga solo un fattore marginale.
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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