Morto Claudio Olivieri. Le parole e i ricordi dei protagonisti del mondo dell’arte

Alcuni tra i protagonisti del mondo dell’arte contemporanea italiana ricordano il pittore scomparso negli scorsi giorni

Ian Tweedy, Angelo Sarleti, Dario Pecoraro, Marco Bongiorni e Roberto Casiraghi ricordano Claudio Olivieri, pittore romano morto a Milano lo scorso 16 dicembre, ripercorrendone la storia e la personalità attraverso aneddoti del passato.

IAN TWEEDY 

Quando sono arrivato per la prima volta a NABA, ho incontrato un vivace pittore e dalla carriera matura. Era il mio nuovo insegnante e avevo paura di lui. Intorno alla prima settimana ero lì, sono stato invitato a vedere il suo studio con altri compagni di corso. E non riuscivo a credere a quanto fosse fantastico tutto. Tirò fuori grandi dipinti scuri e bellissimi da vedere.
Più tardi quella settimana, ho dovuto portare il mio lavoro affinché potesse vederlo e ho portato alcuni disegni su cui stavo lavorando. Li adorava. Continuava a parlarmi in italiano ma non riuscivo a capirlo. Però mi ha dato convinzione e speranza. Oggi conservo ancora quei disegni. 

ANGELO SARLETI 

“La pittura è già l’idea”. Questa è una delle prime frasi che ho ascoltato da Claudio. Non la traduzione di un concetto ma nemmeno un linguaggio che analizza se stesso. Un’idea innescata nella mia mente e che non mi ha mai abbandonato.
Non ho avuto la fortuna di essere un suo studente, ma ho avuto la possibilità di considerarlo un maestro: insegnava con lo sguardo, Claudio, ed era difficile fregarlo.
Se butti un oggetto per terra e lo chiami arte, qualcuno ti può anche credere ma un quadro non mente mai.
Se è una cazzata rimane tale.
Ed era un esame ogni volta che avevo la possibilità di fargli vedere qualcosa, dove
il giudizio arrivava senza sconti, perché la pittura non accetta compromessi, è un atteggiamento estremo. Ed estremo era il giudizio che arrivava diretto ma senza farti male.

Come solo un maestro sa fare. Come sa fare un amico. Come sa fare una persona che ti vuole bene.

DARIO PECORARO

Ciao Claudio, speravo egoisticamente che questo momento non arrivasse mai e invece eccomi qui, a dover fare i conti con la realtà.
Le immagini nella mia testa vanno veloci, una sopra l’altra si scontrano con il cielo grigio di questa mattina e non riesco a fissare un ricordo.
Solo una tua frase ripeto in continuazione: l’invisibile doppia il visibile.
Ti ho conosciuto che ero un ragazzo e insieme abbiamo “battezzato” il campus di Naba sui Navigli. L’atelier dove prima studiavo e ora lavoro l’avevi disegnato tu, con un soppalco dai montanti gialli e una serie di pareti divisorie in legno che delimitavano i box di noi studenti nei quali lavoravamo su tele grandi e piccole, attaccate una sopra l’altra come le pagine di un libro.
Dipingevamo tanto, con gioia, e ti chiamavamo ogni 5 minuti per chiederti consigli, incollavamo alle pareti foto del Milan e dell’Inter per sfotterci a vicenda e mangiavamo panini presi da una vecchia coppia di macellai all’angolo, per dirla a modo tuo, eravamo felici.
Questa mattina mi trovo a girare per questo spazio, oggi bianco, e non riesco a stare fermo, sono agitato, vorrei solo scappare.
“L’invisibile doppia il visibile”, sorrido.
Il profumo di trementina del tuo studio, con la luce dall’alto che illumina i lavori, tubetti e barattolini di colore a olio, diluenti vari sparsi sui grandi tavoli e la polvere, di un grigio chiaro, strano, una polvere colorata, lì mi sentivo bene.
Parlavamo dei tuoi quadri e della luce, di Sickert e della ferocia della pittura, degli enigmi di Rembrandt e del Tiziano, delle Biennali di Venezia, ti mostravo i miei lavori e sapevi sempre tutto, senza che io dicessi nulla. Perché è così, la pittura non mente mai.
Adesso l’unica cosa che vorrei è continuare a scrivere senza fermarmi a rileggere, perché ho paura di voltarmi. Come in un freddo pomeriggio prenatalizio di solo pochi anni fa, seduti sulle poltrone del tuo salotto mi dicesti: “La vita non sai mai come finisce… o come diceva Manfredi: so’ queste e dorcezze della vita, che manco t’arivorti e è già finita”. Ti voglio bene Claudio.

Claudio Olivieri

Claudio Olivieri

MARCO BONGIORNI 

Oggi, Martedì 17 dicembre 2019, muore il pittore Claudio Olivieri. Sono le otto e ventuno del mattino quando leggo il messaggio scritto in nero sul fondo bianco del display di WhatsApp. Rispondo su fondo verde chiaro, dopo qualche minuto di silenzio. Una grande tristezza.
Guardo la carta appesa in sala. Piccola. Misura 35 x 20 cm. Claudio l’ha incorniciata in cassetta con listello sbiancato e passepartout chiaro e prima ancora l’ha dipinta con gessi e acrilico spray.
Mentre la guardo ho pensieri diversi. Sono triste certo. Penso a quanto mi mancherà Claudio come amico e maestro. Da subito mi sento in colpa, per non essere passato a trovarlo di recente, per avere rimandato di continuo una visita causa i troppi impegni. “durante le feste” mi dicevo, “che son più tranquillo”.
Poi guardo il segno grigio e pastoso che spunta da dietro la scura bomboletta. Vedo la sua mano che regge il gesso e si muove portandoselo dietro. Capisco bene come ha disegnato quella linea. Sono lì, assieme a lui mentre la traccia, anche se è il 1994 e io ancora non lo conosco. Siamo in via Carlo D’Adda e la luce cade dagli shed del suo studio in modo commovente.
In piedi nel mio salotto immagino la mano di Claudio che disegna, come l’ho vista fare tante volte; in studio coi gessi e a scuola con penne e matite. Poi mi viene in mente la sua mano dopo l’operazione. Trema, provando a scrivere il nome su un foglio bianco e sporco, in un ripetersi che pare più lotta che esercizio.
“Non capiscono che il lavoro è la mano stessa”, mi dice quando parliamo di provare a disegnare in modi alternativi.
Ho sempre pensato che il lavoro di Claudio fosse votato a fare scomparire la mano dal quadro, di allontanare dalla tela la presenza di un “Io” per lasciarvi depositare quello di chi osserva. Lo fa dissolvendo il segno e scegliendo di usare uno strumento come la pistola a spruzzo che non si appoggia direttamente sulla superficie. È riuscito, mi dicevo, dove ogni pittore si rifiuta di provare. La mano non tocca la tela che rimane tutta per l’occhio. Ma oggi è un giorno di dubbi e mi accorgo forse che sparire non è mai stata una sua preoccupazione. La mano non si è nascosta e tanto meno negata, ma è forse diventata altro. La mano di Claudio è ora il suo stesso lavoro e quel processo di allontanamento ripetuto non è che il suo opposto; un accostarsi paziente e continuo. Un processo di avvicinamento alchemico in cui la distanza dall’opera sparisce e il suo gesto si trasmuta in sostanza gassosa, depositandosi sul lino mischiato a colore ad olio e trementina.
Oggi, 17 dicembre 2019, sono in piedi nel mio salotto, guardo la sua carta del 1994 e capisco che la mano di Claudio è qui con me, che mi insegna a guardare in modo diverso, come del resto ha sempre fatto.

ROBERTO CASIRAGHI 

Caro Claudio,
mentre ti allontani il tuo sguardo e la tua voce non mi abbandonano.
Ti sento in pace, abitatore dell’universo. I tuoi dubbi e i tuoi accanimenti mi salvano dal vuoto.
Grazie per la tua lucidità polemica e per l’inafferrabilità poetica.
Grazie per le tue intemperanze e i tuoi tubetti spremuti.
Grazie per la gioia con cui hai insegnato e per le sfide che hai condotto.
Grazie per le opere:
“Tensionale”,
“Sagittario”,
“Per amore”,
“In sorte”,
“L’angelo accanto”,
“Teologale”,
“Cometa spenta”,
“L’ombra della Pizia”,
“Ipotesi”,
“Prometeus”
e “Taumaturgo”.
Dunque vai…..
e t i s e n t o n o n d i s t a n t e m a a c c a n t o .
U n a l i t o d i V E N T O i m m e r s o n e l l a L U C E .

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Redazione

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