Pittura lingua viva. Parola ad Andrea Martinucci

Viva, morta o X? 68esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.

Andrea Martinucci (Roma, 1991) vive e lavora tra Milano e Roma. Si è laureato in Multimedia Design all’Accademia delle Arti e Nuove Tecnologie di Roma. Tra le sue mostre personali recenti: Will aliens believe in me?, Banca Sistema Arte Collection, Milano, 2019; I will give you a taste of your inner desires, Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano, 2019; Glory Black Hole, Dimora Artica, Milano, 2018. Tra le collettive: XX Premio Cairo, Palazzo Reale, Milano, 2019; A Glass is not a reference for amount, In De Ruimte Space, Gent, 2019; Naturalia et Artificialia, residenza privata di un collezionista, Bologna, 2018; Everytime you switch me off, we die, a little, FOOTHOLD, Polignano a Mare, Bari, 2018; Da Franco “Senza appuntamento” #2, Roma, 2018.

Com’è il tuo rapporto con il digitale?
Ho sempre amato e detestato allo stesso tempo il digitale, come anche ho amato e detestato la pittura. Fin da piccolo mi sono avvicinato alla pittura perché mio padre dipingeva e anch’io, quindi, stavo col pennello in mano con l’intento di simularlo. In accademia ho deciso di studiare multimedia, non pittura. Il digitale sembra una libertà, ma, in realtà, sei sempre schiavo di qualcosa, dipendi dalla presenza di una connessione, di un Wi-Fi o dalla necessità di esprimere quello che ti succede attraverso stories e post. Questo a volte mi crea confusione, ma penso possa essere un argomento interessante da approfondire. Sento l’esigenza di guardare quanto gli altri abbiano bisogno di questa cosa. Rigiro la domanda che stai ora facendo a me sugli altri. Cerco di trovare una lettura data dagli altri. Dopo l’accademia ho iniziato a fare video stile tableau vivant in cui cercavo l’evoluzione pittorica nel video stesso. Volevo allargarmi rispetto alla superficie della tela, volevo estenderla. La presenza del frame però toglieva la parte manuale, proprio quel fare che io stesso avevo messo in discussione. Cercavo dispositivi diversi da tela e pennello. Questo però non mi permetteva di meditare, pensare, riflettere. È anche una questione di gesto. Mi serviva la mano e, grazie alla mano ‒ che faceva, sentiva, toccava ‒, io riuscivo, e riesco, a pensare meglio, a immergermi in quello che sto facendo. La tecnologia è molto catchy, ma è di superficie, non mi permette di arrivare a fondo nel sentire, nel percepire.

Come hai deciso quindi di parlare della tecnologia?
Ho deciso di parlare di tecnologia tornando a utilizzare il mezzo che meglio conosco e che mi permette di essere in connessione con me. Le mie opere partono dai social. Ho un archivio enorme di foto che prendo ad altri utenti di tutte le parti del mondo. Mi interessa capire che estetica si stia sviluppando nel contesto non solo artistico ma sociale. Mi accorgo che c’è un’estetica comune, sia ci si trovi a Roma sia a New York. Ci si fonde, quasi si può negare la propria appartenenza geografica. Mi riempio di screenshot che scelgo di pancia, senza troppe riflessioni. Li lascio depositare nei miei archivi e poi sono loro che, a un certo punto, riemergono da soli. Quando mi devo approcciare a un nuovo progetto, faccio una ricerca nella mia enciclopedia digitale e ci sono cose che emergono. Non sono io che cerco qualcosa, ma sono le immagini che arrivano a me. Dopo le sviluppo, le costruisco, le assemblo, ne sottraggo delle parti.

Andrea Martinucci, 5092019.jpeg, acrilico, terra, grafite e acciaio su tela, 200x200x4cm. Courtesy l'artista

Andrea Martinucci, 5092019.jpeg, acrilico, terra, grafite e acciaio su tela, 200x200x4cm. Courtesy l’artista

Questo tuo intervenire sulle immagini comporta quasi una negazione delle stesse.
Fondamentalmente c’è sempre una privazione, che alcuni, paradossalmente, vedono come aggiunta, altri invece come sottrazione. È un privarsi della tecnica figurativa. Amo il figurativo, l’ho dentro di me, ma cerco di nasconderlo e accantonarlo. Inoltre porto avanti una riflessione su durata e conservazione dell’immagine digitale nel tempo. Non si sa in che direzione si possa andare, se in un mondo futuro resterà tangibile o se diventerà qualcosa di totalmente effimero o scomparso. Se pensi che, nonostante facciamo constanti aggiornamenti dei programmi, paradossalmente poi non riusciamo più ad aprire file di dieci anni fa perché non sono più compatibili con i nuovi programmi. Così non riusciamo a leggere il nostro passato, anche recente.

E in questo ragionamento come si colloca la serie .jpg?
Tutti i dipinti di questa serie sono numerati con la data della loro fine di creazione. È come se la tela diventasse un oggetto digitale, un file tangibile. La interpreto come una gif che si è bloccata, che ha subito un cortocircuito ed è rimasta fissa. All’inizio preferivo accostare il dispositivo pittorico a quello digitale attraverso cornici che leggevano delle gif, poi ho deciso di abbandonarle perché le trovavo troppo didascaliche. Mi piace stimolare l’immaginazione e il pensiero dello spettatore. Ho lavorato su questo in I will give you a taste of your inner desires da Renata Fabbri Arte Contemporanea nel 2019: l’immaginazione come erotismo. Le immagini diventavano corpi nudi in un night club, dove l’osservatore nell’atto contemplativo si poteva immergere in una fase immaginifica, erotica, che lo portava a interrogarsi su cosa ci fosse sotto quegli strati…

Torna il tema della negazione dell’immagine che si lega all’erotismo e da questo alludere al vedere e non vedere arriviamo al glory hole
Per me l’arte è anche ironia, provocazione. Mi piace entrare in territori che possono sembrare di superficie e andare a decostruirli. Per esempio, il glory hole: mi piace creare aspettativa, dare al pubblico qualcosa che poi manca. Sembro dire: “Venite a vedere il glory hole”. Ma poi non c’è: è una metafora della non percezione della totalità. Ho trattato così il tema della finzione, delle fake news attraverso la tematica del glory hole, soffermandomi sulla percezione minima del tutto. Nella mostra Glory Black Hole da Dimora Artica nel 2018 ho impiegato una tenda che non faceva vedere immediatamente l’opera. Sono sadico nei confronti della pittura.

E la tecnica ti interessa?
Non mi interessa. Mi interessa il messaggio, lo status quo della pittura, che non deve essere per forza materica o espressiva nel gesto. Deve mostrare dove possa essere trovata la sua vitalità. E magari questo avviene espandendola attraverso l’aggiunta di tende, superfici, neon…

Exhibition View “I will give you a taste of your inner desires“ curata da Bianca Baroni, Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano. Andrea Martinucci, 23012019.jpeg, acrilico e grafite su tela, 100x150x4cm, 2019. Courtesy l'artista e Renata Fabbri Arte Contemporan

Exhibition View “I will give you a taste of your inner desires“ curata da Bianca Baroni, Renata Fabbri Arte Contemporanea, Milano. Andrea Martinucci, 23012019.jpeg, acrilico e grafite su tela, 100x150x4cm, 2019. Courtesy l’artista e Renata Fabbri Arte Contemporan

L’interazione dell’opera con lo spazio espositivo è per te sempre importante. La tua pittura si espande, come dicevi…
Sì, faccio fatica a stare dentro una cornice fissa. Devo prendermi “spazio” o almeno sapere che c’è tale possibilità, altrimenti resto soffocato dalla dimensione della superficie. Da Renata Fabbri ho voluto far dipingere una scritta a muro, che è una sorta di statement: “Let me feel”. Mi piaceva che la galleria fosse su strada, con una vetrina. Mi piaceva l’idea che l’opera potesse essere fruita anche dall’esterno, in una città come Milano che per i suoi ritmi distrae la percezione. La scritta è servita come pilastro per connettere tuti gli ambienti e le opere e creare una quinta. È una scritta dai caratteri geometrici, quasi fascista, che va in totale scontro con i colori e le forme delle tele. Sembra quasi che le opere siano attaccate alle lettere, non alle pareti. Ci sono elementi che poi ritornano di mostra in mostra a livello contenutistico, a volte lo si capisce subito, in altri casi sul lungo periodo. Ci sono idee che magari non arrivano subito ma dopo mesi. Tutto sta nel recepirle, nel capire in che direzione possano andare. Nella personale da Banca Sistema ho presentato diciassette lavori dal 2016 a oggi. Per la prima volta avevo a che fare con uno spazio che ha dinamiche diverse: non è uno spazio espositivo, ci sono persone che ci lavorano quotidianamente. C’è una diversa relazione con l’opera. Questo mi ha divertito. Mi sono messo in una situazione di difficoltà, l’ho voluta accogliere.

La parola è ricorrente nei tuoi lavori. Perché inserire degli statement come “Let me feel”, “Adapt or Die”, “I saw the future”?
Prima di tutto la parola è un segno. Mi piace parecchio scrivere, leggere. Mi piace la poesia, il ritmo delle parole. E poi mi piace quello che a volte riesco a fare con la parola e non con la pittura o viceversa. Parola e pittura giocano una con l’altra. Le uso anche da un punto di vista estetico. Parole come pennellate. Non a caso, uno degli artisti che stimo di più è Vincenzo Agnetti. Let me feel è una richiesta ma anche una evocazione che può portare in tanti altri mondi. In titoli come I saw the future o Will aliens belive in me? uso sempre l’ironia. La parola breve è di grande potenza. Credo che la brevità sia un tema contemporaneo.

Sempre a proposito dell’impiego della parola, mi viene in mente la serie in cui racconti la storia degli abitanti di Cosenza. La parola qui si fa ritratto.
Il progetto è nato dalla riflessione sul fatto che la mia famiglia è sempre stata molto nomade: la Puglia, prima, la Svizzera e poi Roma. Penso a mio nonno che proprio recentemente dopo tanti anni è tornato a vivere nel suo paese d’origine. Ho incontrato diverse persone a Cosenza durante la residenza BoCs nel 2015. Le ho fatte venire in studio e le ho intervistate per farmi raccontare la loro vita. A partire dalle interviste ho ricostruito, grazie a Google Maps, tutti i loro percorsi, ho sovrapposto le loro vite tradotte in segni grafici con le mani. Sono convito che noi siamo le scelte che facciamo, piccole e grandi che siano. In queste opere, che raccontano delle scelte, la parola è tradotta in un segno, un segno grafico a sua volta tradotto in digitale e infine traslato in forma pittorica. Nonostante queste opere sembrino apparentemente distanti rispetto alla serie .jpg, le trovo affini. Si ritrova il tema della negazione dell’immagine: ho usato per esempio delle sovrapposizioni di carta opaca.

Andrea Martinucci, 30032018.jpeg, acrilico, grafite e acciaio su tela, 40x50cm, 2018. Courtesy Collezione Privata

Andrea Martinucci, 30032018.jpeg, acrilico, grafite e acciaio su tela, 40x50cm, 2018. Courtesy Collezione Privata

Prima parlavi di Agnetti. A quali altri artisti guardi?
Ci sono artisti che, nel mio detestarli, ho amato, banalmente artisti come la Abramović o Hirst. Proprio perché li odiavo, li ho allontanati per capirli meglio. Credo che ogni artista mi possa dare qualcosa. Non riesco a essere totalizzante nella decisione. Prima parlavo di Agnetti perché parlavo della scrittura, ma non riesco ad amare nella totalità qualcosa. Rubo quello che mi interessa, cerco di assorbirlo, dal concettuale all’arte performativa a quella pittorica. Non solo dagli artisti, ma anche dagli scrittori. Mi piace quando la pratica di un artista riesce a entrare in connessione con me o dal punto di vista biografico o stilistico, creando una dimensione intima.

La tua è una pittura veloce o lenta?
Bella domanda! Dipende. Prima di tutto dalla composizione: anche una tela di 10 cm, se complessa, diventa molto lenta. La stratificazione avviene giorno dopo giorno. C’è una componente fisica. Mi faccio facilitare dall’acrilico, che ha un’asciugatura più immediata. La mia pittura ha quindi tempi più veloci nell’asciugatura e tempi più lunghi nella stratificazione e nel pensiero. Non conta il gesto ma quanto tempo ci metto a osservare quello che faccio.

Realizzi disegni preparatori o studi?
Dipende sempre dalla composizione. A volte sono più immediato e di getto, altre volte cerco di capire come possano incastrarsi le cose. Ultimamente cerco sempre di più di affidarmi a me stesso, di eliminare il “giusto” e fare qualcosa che sento più mio, animalesco. Questa è la direzione che sto prendendo. Passo un sacco di tempo sul divano, ho bisogno di guardarmi intorno, di guardare anche banalmente i colori che tengo esposti in casa. Anche i libri sono esposti, nulla è chiuso dentro un cassetto, è tutto molto aperto alla vista. Mi piace guardare come i lavori parlino tra loro. È come in uno spartito, ci sono note alte, note basse.

Ci deve essere una buona armonia?
Magari non c’è nemmeno una buona armonia. C’è dissonanza, ma comunque c’è musica. Mi piace molto l’immediatezza. Nell’immediato riesco a essere più autentico. Per esempio un po’ di tempo fa stavo realizzando un’opera tanto, tanto, stratificata. Non la vedevo più come sincera perché si era persa l’immediatezza. Non so quale sarà il suo destino, magari torna a essere completamente bianca…

Andrea Martinucci, 3032019.jpeg, acrilico e grafite su tela, 200x150x4 cm, 2019. Courtesy l'artista e Renata Fabbri Arte Contemporanea

Andrea Martinucci, 3032019.jpeg, acrilico e grafite su tela, 200x150x4 cm, 2019. Courtesy l’artista e Renata Fabbri Arte Contemporanea

Perché fare pittura oggi?
Perché è un dono e una prigione. A volte rimango stupito dalla lucidità di alcuni miei colleghi sulla pittura, sul fatto che sia il mezzo giusto da impiegare. Io ho negato la pittura, e, nonostante l’avessi scansata, è tornata e continua a tornare. Fare pittura è una cosa che mi permette di vedere e di vedermi. Dipingo da sempre e mi rivedo quando vedo quelle prime opere. È più di uno specchio. Solo con la pittura riesco a fare questo. È una necessità. È una cosa fisica, sensoriale, mentale, ultra fisica. Sento sempre il bisogno di dipingere. Certo, spesso mi scontro con i miei colleghi pittori. Mi trovo meglio con artisti che fanno altro rispetto a me perché io non riesco a identificarmi in una sola cosa, non riesco a essere così razionale, dritto, autoreferenziale.

E come giudichi allora il panorama della pittura italiana contemporanea?
È in fermento. Quando vediamo artisti che all’improvviso cambiano mezzo per assecondare il trend, ci dobbiamo sempre ricordare che l’arte parla un linguaggio diverso rispetto a quello della moda. È sempre importante avere in testa queste domande: perché lo fai? Hai qualcosa da dire? Per me è importante la purezza del fare aldilà del come lo si faccia. Non si deve ricondurre il tutto al solo ego, alla voglia di successo. Sono felice che si stia dando la giusta attenzione anche al figurativo del fare pittorico. Per me appare ancora come un atto politico. Lo faccio perché lo sento e perché devo farlo.

‒ Damiano Gullì

https://andreamartinucci.com/

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Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
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Pittura lingua viva #52 – Speciale OPENWORK (II)
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Pittura lingua viva #67 – Oscar Giaconia

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Damiano Gullì

Damiano Gullì

Damiano Gullì (Fidenza, 1979) vive a Milano. I suoi ambiti di ricerca sono l’arte contemporanea e il design. Da aprile 2022 è curatore per l'Arte contemporanea e il Public Program di Triennale Milano. Dal 2020 è stato Head Curator del…

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