Chi si rivede? L’editoriale di Marco Senaldi
Le riprese televisive sono materiali preziosi per documentare azioni artistiche ed eventi espositivi. Eppure non sempre ottengono l’attenzione che meritano.
L’intervistatore francese si china su Gino, e, sfoderando il suo traballante italiano, gli chiede: “Sig-nor De Dominicis, che cosa sig-nifica suo Pavillone come arte?” – al che il nostro GDD nazionale, come al solito fasciato da un paio d’occhiali nerissimi, da ghiacciaio, risponde seraficamente che se le opere devono dire qualcosa, lo dicono da sole, e non si può proprio aggiungere niente a parole…
È questo uno dei tanti materiali video che mi sono venuti per le mani negli ultimi mesi, durante l’annosa, ansiosa e affannosa preparazione delle quattro puntate di Genio & Sregolatezza, il programma di cui sono autore, con Alessandra Galletta – in onda su RAI Storia.
Questi materiali che tornano a farsi visibili, sbucando dalle viscere delle teche RAI (quelle non ancora digitalizzate e quindi non disponibili online), dagli archivi della Biennale di Venezia, del Centro Pecci, e di tante altre raccolte pubbliche o private sparse un po’ dovunque, mettono di fronte a un grande dilemma. L’impressione che sorge guardando, ad esempio, gli artisti e i critici (tra cui Pino Pascali o Gillo Dorfles) presenti alla celebre tre giorni di Amalfi nel 1968, Arte povera + azioni povere, mentre giocano a calcio davanti a una porta malamente disegnata sul muro degli arsenali dove si tenevano le performance, oppure le riprese di Schifano mentre dipinge davanti alle telecamere del programma Visti da vicino, o i servizi della tv cecoslovacca sulla Biennale del 1972 – è che ci siamo persi qualcosa. Convinti da sempre che la fotografia, la recensione, il commento critico fossero la più fedele restituzione dell’opera d’arte e dell’attività di un artista, abbiamo sempre considerato le riprese televisive con una certa condiscendenza, o per meglio dire con una certa sufficienza, quando non proprio con supponenza, come se si trattasse di poco più che di filmini famigliari e, oggi, di una versione un po’ più large delle “storie” di Instagram.
“Abbiamo sempre considerato le riprese televisive con una certa condiscendenza, o per meglio dire con una certa sufficienza”.
Peccato però che ci siamo sbagliati. I servizi televisivi – da quelli più di cronaca per i telegiornali, a quelli più approfonditi per dei programmi specifici, senza neanche andare a scomodare i veri e propri documentari d’arte, che sono un’altra cosa ancora – rivestono un’importanza che non è affatto marginale, ma assolutamente centrale per chi si occupa di arte contemporanea. E il motivo è presto detto: se l’immagine fotografica è sì una testimonianza chiave, ma inevitabilmente (come del resto ripeteva proprio De Dominicis) anche un’“opera del fotografo”, sono proprio le anonime riprese video (quelle vintage soprattutto, ma anche quelle più recenti) a svelarci invece la dimensione altrimenti inafferrabile che l’evento possedeva quando ebbe luogo. Nelle riprese della famigerata sala di Gino del 1972, ad esempio, quella con l’esposizione del mongoloide, si può notare non solo che sulla sedia nell’angolo si alternano altre figure, tra cui una bambina, ma anche che, quasi invisibili per i visitatori (e certo non catturabili per i fotografi), c’erano altre due presenze umane issate su altrettante sedie quasi a sfiorare gli altissimi soffitti dello spazio espositivo. E nelle riprese degli eventi di Amalfi si capisce chiaramente che le opere d’arte – poi tante volte ri-esposte come “oggetti” autonomi – erano poco più che oggetti di scena, o meglio attivatori di “pura energia” (come ha scritto Gilberto Zorio), cosa che si fatica a cogliere dalle fotografie superstiti.
La precisione anche involontaria di questi documenti – che raccontano fra l’altro di visi, di abiti, di modi di fare perduti o cancellati dal tempo – non va solo rivalutata: la loro testimonianza spinge piuttosto a domandarsi se molte pagine di storia dell’arte recente non vadano forse interamente riscritte.
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #52
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