Tarantismo: Odissea di un rituale italiano. La proposta di Flee Project
“Tarantismo: Odissea di un rituale italiano” si rivela un vero e proprio nostos, un tentativo di indagine, di ritorno all'origine e alle radici di un rituale che ha ormai perso il sapore autentico.
È l“idioma della sofferenza” (Dubisch, 1995) a mancare, rinnegato dalle nuove generazioni; il sentimento della vergogna risulta infatti proibitivo in un momento sociale da una parte tutto orientato all’affermazione del sé e alla sopraffazione del diverso, dall’altra all’esaltazione della sensualità del corpo, della bellezza disordinata di una frenesia calcolata, “coreografica”, apatica magnificazione dell’estetica tramite i social che lavorano sull’immagine come Instagram.
Flee, piattaforma creativa dedicata all’ibridazione culturale fondata da Alan Marzo, Olivier Duport e Carl Åhnebrink, sta promuovendo un progetto dedicato alla Pizzica e al Tarantismo. Non solo un libro legato a un vinile, ma un lavoro in espansione che prenderà forma in conferenze, mostre, giornate di approfondimento.
Torniamo agli anni del boom economico, l’Italia in piena salita, nuovi miti e idoli commerciali, la Olivetti, la Vespa immortalata da Vacanze romane, l’Autostrada del Sole, l’immagine di una nazione forte, esportatrice di sogni in vitro e idee. Allo stesso tempo un Paese che non vuole fare i conti con il proprio passato, che rinnega, congedandoli, l’attaccamento alla terra, la cultura contadina come polvere da nascondere sotto il tappeto. La patina degli elettrodomestici e dei nuovi consumi crea bisogni uniformi e stimoli sincopati. La terra del rimorso di Ernesto De Martino incide una crepa sulla superficie levigata, parla di credenze, di mitologia e magia, scuote la terra sotto i piedi ai ritmi della pizzica; qualcosa di cui preferiamo non curarci ormai rischia di scomparire.
LA STORIA DEL TARANTISMO
La ripetizione del fenomeno dell’avvelenamento da parte del ragno veniva definito ri-morso, da questo il nome dell’indagine promossa nel 1959 dall’antropologo. Ancora prima ‒ siamo nel gennaio 1955 ‒ usciva su Cinema Nuovo, rivista d’avanguardia dedicata al Neorealismo, un servizio dedicato alle tarantate, immortalate da Chiara Samugheo nel giugno 1954 a Galatina. Nelle sue dettagliate descrizioni De Martino sottolinea anche la presenza, durante il rituale, di piante aromatiche come basilico, cedrina, menta e ruta. Ci aspettiamo fosse un’esperienza tale da coinvolgere tutti i sensi, i colori risultavano essenziali, associati alla tipologia di avvelenamento subito dal tarantato, venivano applicati nastrini, le cosiddette “zagareddhe”, sui tamburelli. Samugheo nei suoi scatti rubati rappresenta donne dallo sguardo perso, sdraiate a terra in posizioni scomode, corpi che si arrampicano sulle balaustre della chiesa, gesti convulsi e deliranti, una folla complice, per nulla attonita. Eppure, ci avverte, la forma di questo disagio psicologico, di questa oppressione non è stata cancellata, si è semplicemente trasformata: “Le ‘invasate’ di oggi, per me, sono le donne senza dignità. Quelle che si sono lasciate emarginare da una società ancora oggi prettamente maschilista. Quelle che non lottano o, ancor più grave, che non possono lottare per i propri diritti: di pensiero, di azione, di espressione sessuale”.
IL PROGETTO DI FLEE
Tarantismo: Odissea di un rituale italiano raccoglie nove testimonianze di esperti, il quadro d’insieme di Luigi Chiriatti, l’intervista al regista Edoardo Winspeare, che ha estetizzato il fenomeno multimediale della pizzica, portandola sul grande schermo, le considerazioni di Claudia Attimonelli, Salvatore Bevilacqua, dello storico della scienza Gino Di Mitri e di Mattia Zoppellaro.
Il vinile raccoglie le registrazioni originali dei musicisti-esorcisti registrati da Diego Carpitella, Ernesto de Martino e Alan Lomax alla fine degli Anni Cinquanta, nonché sei rielaborazioni uniche di musicisti elettronici e produttori contemporanei d’avanguardia: i due norvegesi Bjorn Torske & Trym Søvdsnes trasformano la traccia puntando sulla dub e sulla techno, la canadese LNS isola la voce di una cantante di pizzica mandandola in loop, il danese UFFE spinge il ritmo sincopato creando un sound minimale da club, KMRU, artista sonoro di Nairobi, specializzato in composizioni atmosferiche e “ambient”, partendo dal violino di Luigi Stifani soppesa la componente emotiva, il veneto Bottin mantiene il sapore originale enfatizzando il senso lirico, mentre Don’t DJ, di base a Berlino, gioca sulla teoria della “Musique Acéphale” e punta su un effetto che alimenta lo sfaldamento sonoro rievocando l’intorpidimento dato dal veleno dell’aracnide, uno stato di coscienza alterata.
PAMELA DIAMANTE E LA MENADE DI SCOPAS
L’artista Pamela Diamante, rappresentata dalla galleria Gilda Lavia, è stata chiamata a realizzare un’opera concettuale appositamente per il progetto. Vengono accostate una pietra apparentemente priva di forma e un’immagine fotografica che rappresenta la Menade di Scopas (330 a.C.). Se la pietra leccese è scavata e segnata dal tempo e dalle intemperie, silente testimone di furiose e impetuose danze notturne e tarantate, corrosa dal pianto di chi fu, il busto della Menade, pur menomato, comporta un’espressività portentosa che ci fa immaginare movimenti sfrenati ed ebbri: tutto insiste su quelle spalle leggermente ruotate e il volto ripiegato all’indietro, i capelli al vento, il dionisiaco, la vertigine del corpo fuori controllo.
Sembrano urlare e richiedere chi ha il diritto di vantare più attinenza e spessore, chi può definirsi realtà immanente in uno scontro-incontro in cui si instaura un rapporto reciproco, un flusso di nutrimento. La pietra pare plasmarsi sotto il nostro sguardo, sollecitare una metamorfosi, passare dalla potenza all’atto; la fotografia assume il ruolo di vettore energetico, è promotrice della trasfigurazione, scultrice inanimata e inconsapevole.
Il potere dell’immagine e il suo tentativo di decodificazione, passato e presente, si riaffermano. Flee con la sua operazione risolleva una questione mai sopita: se sia possibile o meno risalire alle vere motivazioni, all’essenza stessa del dolore di un popolo che ha sofferto amaramente ma con orgoglio, le tradizioni del quale vengono distorte dall’acritica contemplazione di un fenomeno “snaturato” dal richiamo internazionale, La Notte della Taranta.
‒ Giorgia Basili
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