Un museo ideale per il XXI secolo. In un libro (e in questa intervista)
Pubblicato sul finire del 2019, “L'opera interminabile” di Vincenzo Trione è un libro che racconta un “museo senza mura”. Popolato da capolavori di Anselm Kiefer e Sophie Calle, Matthew Barney e Damien Hirst, ma anche di musica, letteratura, cinema... Ne abbiamo parlato con l'autore, in attesa della presentazione al MAXXI di Roma il 14 gennaio insieme a Melania Mazzucco.
La formula del “museo immaginario” ha una tradizione che inizia a essere ampia e strutturata, da André Malraux al volume di Melania Mazzucco uscito un paio d’anni fa proprio per Einaudi. Quali sono stati i tuoi modelli e perché hai scelto questa formula?
Quello del museo immaginario è un artificio cui diversi autori si sono richiamati nel corso della storia dell’arte del Novecento. Pur molto diversi, il libro di Malraux e quello di Melania Mazzucco hanno alcune assonanze con il mio. Tuttavia, non ho voluto creare un “classico” museo immaginario, ma, richiamandomi proprio a una suggestione di Malraux, nel mio libro ho provato ad allestire un museo senza mura. Un museo all’interno del quale potessero essere presentati non quadri e sculture, ma installazioni monumentali, imponenti, ambiziose, segretamente epiche. Opere-mondo che, nel loro insieme, non potranno mai essere accolte in un museo reale. Nel mio museo senza mura ho “esposto” opere epocali, decisive per capire la nostra età. Non ti nascondo che L’opera interminabile ha anche l’ambizione segreta di offrirsi come possibile ma necessario canone dell’arte del XXI secolo.
In questo libro è come se inserissi dei personaggi all’interno di un altro tuo studio, Effetto città. Hai in mente una trilogia, magari con un terzo volume più specifico sulla letteratura, qui prefigurato dalla chiamata in causa di Pamuk?
La letteratura è da sempre tra gli ambiti che mi interessa maggiormente. Sin dagli anni giovanili, rappresenta un po’ il fil rouge del mio lavoro. Il mio primo libro era su Apollinare: su un poeta che interpreta l’arte d’avanguardia. Ho studiato a lungo anche Baudelaire critico d’arte: dunque, un altro poeta. E ho dedicato anni alla riflessione sugli scritti degli artisti: da Boccioni a Soffici a de Chirico. Inoltre, non ti nascondo che, nel mio tempo libero, preferisco leggere romanzi. Ne L’opera interminabile, la letteratura è molto presente. Ho dedicato un capitolo a Pamuk e un altro a Balestrini. Altri artisti di cui parlo si sono ispirati a testi letterari. Penso a Paladino, che si propone di riscrivere a oltranza il Chisciotte di Cervantes. E penso a Kentridge, che si propone di riattivare su diversi registri linguistici Il naso di Gogol. Inoltre, anche ne L’opera interminabile ho continuato a studiare la scrittura critica degli artisti: il momento nel quale gli artisti parlano del proprio lavoro, confessano i propri segreti e le proprie suggestioni, talvolta si misurano direttamente con l’elaborazione teorica. Ne L’opera interminabile, due sono i casi più rivelatori: quello di Kiefer e quello di Kentridge. Infine, non ti nego che mi ha fatto molto piacere l’apprezzamento che proprio Pamuk ha riservato al mio libro, donandomi il blurb riportato in quarta di copertina. No, non ho in mente una trilogia. Almeno per ora. Forse. Ma sicuramente la letteratura resta e resterà un territorio che continuerò a frequentare.
L’aggettivo “interminabile” nel titolo rimanda a uno degli scritti più illuminanti e sottovalutati di Freud. Approcciando l’arte con quel criterio, si può forse leggere tutta l’arte come contemporanea? Il tuo è un invito in tal senso?
Mi sembra molto opportuno il riferimento allo scritto di Freud, troppo spesso dimenticato. Certamente alcuni generi ampiamente praticati dagli artisti contemporanei come happening e performance hanno in sé l’idea stessa dell’interminabilità. Si tratta di generi che prevedono un “non finito”. Evocano l’idea di un’opera d’arte che tende a farsi, a disfarsi e a rifarsi ininterrottamente. In fondo, anche una pratica come il reenactment potrebbe essere interpretata come un modo diverso per riaffermare l’interminabilità di tante opere d’arte contemporanea. Le creazioni che ho scelto nel mio libro esprimono il bisogno di non darsi mai come risolte: hanno tutte in sé il germe di una consapevole non-finitezza. Tra i casi probabilmente più classici, il Teatro delle Orge e dei Misteri, che assomiglia a una partitura riscritta a oltranza ogni anno da Nitsch. Ma anche i concerti allestiti da Es Devlin. Le opere che ho scelto in questo libro, di fatto, sono progetti che vengono iniziati, abbandonati e ripresi più volte dagli artisti. Eloquente l’ossessione di Kentridge per Il naso di Gogol o quella di Paladino per il Chisciotte, ma l’idea dell’opera interminabile si manifesta anche ne I Sette Palazzi Celesti di Kiefer: basti pensare alle tele che avvolgono le sette architetture e che si offrono come processi mai finiti, condannati a un perenne divenire. Del resto, come ricordava Kundera, le grandi opere sono condannate a restare non-compiute. Interminabili.
Alcuni degli esempi che tratti nel libro sono più classici, per così dire – penso a Fabre o Kentridge. Poi però inserisci gli U2, per citare il caso più clamoroso. È un modo per dire al tuo lettore che pensare ancora in termini di arti visive, teatro, musica ecc. come ambiti separati è una concezione superata dalle arti stesse?
Nel libro, non ho tanto fatto una scelta di artisti, quanto di opere. Ci sono alcuni punti critici per me rilevanti: si tratta di opere realizzate nel XXI secolo da artisti che, pur servendosi di media diversi, condividono il bisogno di superare la specificità dei singoli linguaggi. Non ho ragionato a partire dalla personalità del singolo autore: sono convinto che l’artista sia un errore biologico rispetto all’opera. Ho preferito, perciò, concentrarmi sulle opere in sé, considerate come individui dotati di un’identità, di una personalità, di una storia. Ho scelto creazioni nelle quali saltano in modo definitivo le gerarchie e le divisioni tra linguaggi. Viene messa in discussione una tradizione che dal dibattito sul sistema delle arti svoltasi nel Rinascimento arriva fino alle avanguardie novecentesche. Di conseguenza, gli artisti che ho radunato nel mio museo impossibile, pur con accenti diversi, rivelano il bisogno di superare una netta partizione tra arti visive, teatro, musica, cinema e letteratura. Se nelle avanguardie gli artisti provavano a esplorare diversi linguaggi affidandosi a un moto centrifugo, la mia scelta è ricaduta su artisti che tentano di riportare diversi linguaggi all’interno di un’unica opera, affidandosi a un moto centripeto. Penso soprattutto a Kentridge, a Parreno, a Greenaway, a Björk, a Es Devlin e alle sue faraoniche scenografie per gli U2. Il punto di approdo è Carne y Arena di Iñárritu, nella quale i media tradizionali sembrano dissolversi nella prospettiva di quella che potremmo chiamare un’arte senza generi (per riprendere la profezia enunciata un secolo fa da Ricciotto Canudo, il padre del cinema come settima arte). Credo che sia questa la grande svolta estetica del XXI secolo.
Sia in Effetto città che ne L’opera interminabile utilizzi un linguaggio molto scorrevole, narrativo oserei dire, pur fornendo al lettore tutti gli strumenti bibliografici del caso, però nelle note. Mi sembra quasi che, paradossalmente, tu sia più “colloquiale” nei libri che negli articoli per la Lettura, che è l’inserto di un quotidiano. Perché hai scelto di mescolare così le carte – ammesso che tu sia d’accordo con questa mia visione?
Sono convinto che la scrittura debba riarticolarsi a seconda dei contesti nei quali viene ospitata: la pratica critica deve dislocarsi su diversi piani e registri. È quel che ha insegnato la migliore tradizione storico-critica novecentesca. Esiste la scrittura visiva: il progetto e la curatela di una mostra. Esiste, poi, una scrittura di carattere militante e civile, come quella alla quale mi sono affidato, per esempio, in Contro le mostre, scritto con Tomaso Montanari (uscito per Einaudi nel 2017), o in una serie di articoli pubblicati sul Corriere della Sera. Esiste, poi, la scrittura più distesa e approfondita su artisti e soprattutto su fenomeni e tendenze del presente: come quella adottata negli articoli pubblicati sul supplemento culturale del Corriere della Sera, la Lettura. Per me, una straordinaria palestra intellettuale: gli amici che curano la Lettura, Antonio Troiano e Piero Ratto, mi invitano a non fare la semplice cronaca di esperienze legate al presente, ma a cercare di cogliere le ragioni sottese a quelle stesse esperienze. Infine, nel caso di Effetto città e di L’opera interminabile, mi affascina riprendere la grande tradizione del saggismo europeo, incarnata in maniera mirabile da due tra gli scrittori che amo maggiormente: Calvino e Kundera. Senza dimenticare gli storici dell’arte-scrittori come Longhi, Arcangeli, Brandi, Briganti, Ottani Cavina. La sfida più ambiziosa sta nel raccontare idee. Sottraendosi al linguaggio oscuro e autoreferenziale cui tendono a ricorrere tanti critici, inclini a utilizzare teorie solo orecchiate. Cercando di coniugare analisi dell’opera e ricerca storico-documentaria-antropologica. Combinando storia dell’arte, critica e visual studies. Senza temere di affermare il proprio punto di vista su una determinata opera: non ho paura di dire “io”, di parlare in prima persona. In questo libro, spesso, sono partito dai miei primi incontri disorientati con opere che, poi, ho studiato a lungo. E mi sono richiamato a confessioni consegnatemi da artisti come Kiefer, Kentridge, Paladino e Nitsch, con cui ho una lunga consuetudine. Prima esiste il piacere dello sguardo. Poi, quel piacere deve essere filtrato attraverso lo studio e la lunga riflessione. A me interessa soprattutto ricostruire i processi genealogici nascosti dietro un quadro, una scultura, una installazione, una performance, un film, un concerto rock. Quali opere di altri autori hanno influenzato un artista? Quali libri ha letto? A quali pensatori ha guardato? In che contesto si è mosso?
Che cosa significa rispondere a queste domande?
Aiuta a capire meglio l’origine e il senso di un’opera. Credo che la grande sfida per chi si misura con l’arte sia ancora quella di usare la scrittura come un ponte per aiutare a capire un po’ meglio la bellezza difficile di ampie regioni dell’arte contemporanea, spesso ermetica e criptica. Per dirlo in una battuta, l’obiettivo che sta dietro L’opera interminabile e dietro gli articoli pubblicati su la Lettura è il medesimo. Sono lavori che nascono da una domanda: come si guarda l’arte contemporanea? In fondo, la mia sfida è quella di offrire qualche chiave utile a chi non sa o sa poco o ha tante diffidenze per guardare con maggiore consapevolezza alcune opere d’arte del nostro tempo. Sai, troppo spesso assistiamo all’eutanasia della critica. La maggior parte dei critici della mia generazione ha smesso di fare critica nel senso più alto del termine, preferendo le pratiche dell’allestimento delle mostre e dell’intervista di tipo giornalistico. Insomma, ha abdicato a quella che, secondo me, rimane la funzione più delicata della critica: l’interpretazione, il racconto delle opere d’arte e lo svelamento delle intenzioni consapevoli e anche inconsapevoli nascoste dietro un complesso palinsesto di segni e di materie.
‒ Marco Enrico Giacomelli
Vincenzo Trione – L’opera interminabile. Arte e XXI secolo
Einaudi, Torino 2019
Pagg. 588, € 40
ISBN 9788806237738
www.einaudi.it
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