Le metropoli di Gabriele Basilico al Palazzo delle Esposizioni di Roma
Il Palazzo delle Esposizioni di Roma inaugura la retrospettiva dedicata alla fotografia di Gabriele Basilico: 250 immagini scattate nelle metropoli del globo. Abbiamo intervistato i curatori Filippo Maggia e Giovanna Calvenzi e Alberto Saibene, co-fondatore della casa editrice Humboldt Books.
Il legame tra Gabriele Basilico (Milano, 1944-2013) e l’ambiente urbano è stato un tratto distintivo del suo fare fotografia, sviluppato nel corso dei decenni attraverso viaggi – e punti di vista – che ne hanno forgiato il linguaggio. La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma approfondisce questo tema, riunendo oltre 250 opere realizzate nelle metropoli del pianeta.
Abbiamo chiesto ai curatori Filippo Maggia e Giovanna Calvenzi – quest’ultima anche responsabile dell’Archivio Gabriele Basilico nonché compagna di vita del fotografo – e ad Alberto Saibene – co-fondatore insieme a Giovanna Silva della casa editrice Humboldt Books – di raccontare il “loro” Gabriele Basilico. Mescolando ricordi privati e lavoro sul campo.
FILIPPO MAGGIA – CURATORE
Qual è l’idea di metropoli che Basilico intendeva trasmettere e come si colloca nel panorama visivo, ma anche architettonico e sociale, odierno?
Gabriele Basilico era come ossessionato dalla città e dai temi urbani, al punto di affermare che la città “ha sempre esercitato su di me un fascino grandioso, illimitato, da ingordigia”. La fotografia, ancora utilizzando parole sue, è stata per lui quasi un “pretesto” per indagare a fondo il tessuto delle città con un approccio simbiotico, ogni volta adattandosi a vivere un’esperienza diversa, sovente con lunghe attese prima che la città cominciasse a rivelarsi al suo sguardo. La sua fotografia aiuta noi tutti a vedere le città, a riconoscere attraverso le sue immagini di importanti edifici come di architetture mediocri il loro carattere e la loro natura. Esercizio, questo, che include anche l’utilità sociale della pratica fotografica, perché oggi la fotografia è in grado di offrire uno sguardo trasversale e “se mediata attraverso l’esperienza dell’arte, di restituire uno scenario più comprensibile”, come lui stesso ricordava. La sua idea di metropoli, in definitiva, è sempre stata quella di un animale che continuamente cambia pelle: la fotografia ne registra le mutazioni, con rigore e sentimento.
Come avete selezionato le fotografie presenti in mostra? Quale racconto avete intrecciato?
Le 40 fotografie presenti in Milano ritratti di fabbriche e le 96 fotografie delle Sezioni del paesaggio italiano corrispondono precisamente alle selezioni originarie a suo tempo ordinate da Basilico. La scelta per Beirut è inedita: il bianco e nero del 1991 e il colore del 2011 documentano l’inizio e la quasi fine di un determinato periodo storico: dalla fine della guerra civile alla quasi fine della ricostruzione e rinascita di una città che vorrebbe tornare ai fasti del passato, quando Beirut era conosciuta come la Parigi del Medio Oriente. L’ampia sezione dedicata alle metropoli del mondo include una serie di opere mai presentate sino a oggi, ad esempio Liverpool e Boston. Roma, infine, è una selezione organizzata guardando alle differenti occasioni che Basilico ha avuto di operare nella capitale, fotografie dove il marmo si sostituisce al cemento.
L’esposizione fa dialogare fotografie realizzate da una parte all’altra del pianeta. Quali somiglianze e quali differenze intercorrono fra queste metropoli?
Il racconto delle città per immagini avviene, come Basilico medesimo ricorda, nel “cercare di svelarne l’essenza, essere pronti ad ascoltarne le voci, decifrarne i messaggi nascosti, entrare in sintonia con i luoghi, cercare, attraverso il confronto con altri luoghi, quelle affinità che ci fanno riconquistare un senso di appartenenza e una familiarità che ci consente di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo, allo sconosciuto… e allora Beirut ci riporta a Palermo e forse un po’ a Napoli, una certa parte di Roma si ritrova a Parigi e forse a Madrid…”.
Dal punto di vista curatoriale, quali sforzi, strategie e scelte implica realizzare una mostra di oltre 250 fotografie firmate da Gabriele Basilico?
Il progetto mostra nasce innanzitutto dalla necessità di proporre un’esposizione nuova, differente da quanto proposto in termini di selezione opere e contenuti in particolare negli ultimi anni. Fatta eccezione per Milano ritratti di fabbriche e le Sezioni del paesaggio italiano, le sale dedicate alle metropoli, Beirut e Roma sono state oggetto di lunghe riflessioni con Giovanna Calvenzi e Gianni Nigro. Abbiamo cercato di offrire una lettura del lavoro di Beirut inedita, allestendo a specchio ma senza alcun intento comparativo due lavori realizzati a distanza di vent’anni uno dall’altro, il primo in bianco e nero, il secondo a colori, con motivazioni e finalità assai differenti. Nelle metropoli abbiamo inserito alcune immagini inedite e altre raramente pubblicate o esposte a significare una continuità e una perseveranza di sguardo costanti e consapevoli nell’approccio di Basilico alle città, a quel genere di città dominata dal cemento che tanto lo attraeva. Per contro, Roma è classica, marmorea, eppure contaminata da tutti quei codici e tracce della contemporaneità che sono sempre stati un altro tratto distintivo del fotografo milanese. Il percorso mostra, completato dal racconto biografico della vita di Basilico ove sono presenti immagini di altri importanti progetti non esposti a Roma – ad esempio la missione fotografica coordinata dalla DATAR ‒, introduce il visitatore al lavoro di Basilico passo dopo passo, con ordine e passione, come crediamo sarebbe sembrato opportuno all’artista medesimo.
GIOVANNA CALVENZI – CURATRICE/ARCHIVIO GABRIELE BASILICO
Architettura e fotografia si supportano a vicenda nella produzione visiva di Gabriele Basilico. Come si è evoluto il dialogo tra queste due discipline nel corso del tempo?
Architettura e fotografia si sono sempre intrecciate nella trascrizione della realtà di Gabriele Basilico. Sia per i suoi studi che per le prime esperienze professionali presso studi di architettura milanesi, Gabriele Basilico non ha mai dimenticato la sua impostazione metodologica, l’attenzione al costruito, allo studio dell’urbanistica, facendo delle esperienze universitarie la base del suo lavoro di fotografo. Tutta la sua opera è interamente dedicata alla conoscenza delle città, alla rilettura delle trasformazioni del paesaggio urbano contemporaneo.
Mare, acqua, porti, cemento, strade, periferie sono solo alcuni dei soggetti scelti da Basilico, anche adottando una prospettiva dall’alto. Come stabiliva i soggetti da riprendere e i punti di vista da utilizzare?
Gabriele Basilico è sempre stato affascinato dalle città, dalla loro storia, dalle stratificazioni architettoniche create dal tempo e ha sempre preferito, come ha spesso detto e scritto, l’architettura “media”, le periferie, i porti, dichiarando di essere vittima di una sorta di fascinazione nei confronti del cemento. Lui stesso ha scritto: “Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta, e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo”. Ogni volta che doveva fotografare una città si documentava a fondo, ne studiava la storia e le piante e si costruiva una sorta di itinerario personale che diventava poi una traccia da seguire. Così è stato per il suo lavoro a Roma, seguendo il corso del Tevere, a Mosca, sul perimetro delle “torri staliniane” o a San Francisco, lungo la Silicon Valley. Per quanto riguarda poi l’identificazione dei “punti di vista” ecco come lui stesso l’ha descritta: “Se immaginiamo la città come un grande corpo fisico e prendiamo metaforicamente come esempio l’agopuntura, sappiamo che ci sono dei punti lungo i meridiani nei quali si attiva l’energia. Allo stesso modo mi piace pensare, come fotografo, che in fondo mi muovo come se cercassi dei punti nello spazio fisico nei quali collocare il punto di osservazione e da dove infine proiettare lo sguardo”.
Lei ha condiviso il percorso professionale e umano di Basilico, compiendo insieme a lui numerosi viaggi. Quale legame sviluppava con i luoghi? E quanto della sua interiorità proiettava negli scatti, mantenendo quella “distanza” cui alludeva spesso riferendosi al fare fotografia?
Ho condiviso certamente il percorso umano di Basilico ma non ho mai lavorato professionalmente con lui e mi è capitato solo in modo saltuario di seguirlo nei suoi viaggi. In ogni luogo, tuttavia, trovava sempre delle ragioni di interesse, vedeva cose che io non vedevo. Aveva l’abitudine di ritornare più volte nello stesso posto per stabilire con i luoghi una sorta di legame, di consuetudine ed è per questo che prima di ogni indagine si dedicava a ripetuti sopralluoghi. Ancora Gabriele ha scritto: “È forse presuntuoso e illusorio sperare che la fotografia possa rieducare alla visione dei luoghi, ma sicuramente uno sguardo sensibile, meditativo, centrato, può aiutare a rivelare ciò che è davanti ai nostri occhi ma spesso non è riconoscibile. È come se facessi le stesse fotografie da sempre, con la specificità di costruire un dialogo privilegiato con i luoghi che scelgo di fotografare, con la loro storia, con la loro natura, con i loro tratti somatici, ma confrontandoli con la memoria di tutti i luoghi che ho conosciuto in precedenza”.
Oggi si parla molto di archivi e se ne discute il valore. Quali sono gli intenti dell’Archivio Gabriele Basilico? E quale memoria o eredità del fotografo vuole restituire?
Credo che il lavoro realizzato da Gabriele Basilico abbia una straordinaria importanza storica. Il suo archivio è una fonte continua di scoperte e credo che neppure Gianni Nigro, che ha lavorato per quasi trent’anni con Gabriele, lo conosca completamente. Il destino di un archivio di questa importanza è di diventare una memoria accessibile, pubblica e consultabile, di entrare a far parte di una istituzione pubblica, preferirei italiana ma qualora non fosse possibile anche internazionale. Per ora stiamo lavorando solo sul quello che Gabriele aveva già indicato, rispettando le sue scelte, ma l’archivio è talmente ricco che le sorprese non sono mai finite. Ci ha pensato lo stesso Gabriele a costruire la sua eredità e il nostro compito è solo quello di conservarla e farla conoscere. Per questo abbiamo creato un sito – www.archiviogabrielebasilico.it, realizzato da Giacomo Traldi e Eçe Özdil / Jüniör – che si propone appunto di far conoscere l’incredibile ricchezza di quanto Gabriele Basilico ha realizzato.
ALBERTO SAIBENE – CO-FONDATORE DELLA CASA EDITRICE HUMBOLDT BOOKS
A me pare che il rapporto tra Gabriele Basilico e la città si definisca dopo Milano. Ritratti di fabbriche (1978-1980), un’indagine che testimonia, tra le altre cose, che la prima modernità è finita se si può trattare il suo centro propulsore, la fabbrica, come qualcosa che è stato e che ora non c’è più. Lo aiuta essere cresciuto a Milano, una città che ha conosciuto due momenti del Movimento Moderno, quello degli anni Venti-Trenta e quello dopo la Seconda Guerra Mondiale (Grattacielo Pirelli vs. Torre Velasca). Certo aver studiato architettura è stato fondamentale per lui, ma il dato biografico gli offre la possibilità di uno sguardo istintivamente diacronico sul XX secolo, preparandolo al suo epilogo, al passaggio dal moderno al postmoderno.
Basilico è molto consapevole quindi, quando fotografa le grandi città europee e più tardi le metropoli del mondo, del rapporto tra i pieni e i vuoti, della relazione tra gli edifici, anzi cerca un dialogo tra loro. L’ultimo decennio del XX secolo gli offre una gamma che ai suoi estremi ha da una parte Berlino, una città che rinasce dopo la caduta del Muro, dall’altra Beirut, una città archeologica dopo venticinque anni di guerra civile. Il suo sguardo non cambia, anzi è proprio il rigore (e la curiosità) che utilizza nell’indagare queste città che serve a tenere insieme l’universale e il dettaglio. Basilico ha dichiarato in più occasioni della necessità che le architetture urbane devono essere fotografate senza presenze umane, tuttavia la sua è una fotografia umanistica proprio perché la città è sempre opera dell’uomo, anzi è il suo esito più elevato.
Il più grande complimento che si può fare alla fotografia di Gabriele Basilico è che noi oggi guardiamo certi paesaggi, specie urbani, con i suoi occhi. Diciamo: “Sembra una fotografia di Basilico”, come diremmo “Sembra un film neorealista”. È anche per questo che anche dopo la sua morte il rapporto con la sua fotografia è rimasto per noi qualcosa di vivo, perché la sua opera è oggi un classico e, per citare Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”. E “foto” nel nostro caso vale come “libro”. Avendolo un po’ conosciuto, penso che a Gabriele sarebbe piaciuto.
‒ Arianna Testino
Versione integrale dell’articolo pubblicato su Grandi Mostre #20
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