Street Art e comunicazione. Intervista a Daniele Geniale
Formatosi nell’ambito della comunicazione, Daniele Geniale è anche uno street artist attivo da una parte all’altra del globo. Lo abbiamo intervistato.
Daniele Geniale, classe 1983, ha cominciato a praticare arte urbana nel 2006, a Roma, dove si è formato in comunicazione visive. Cresciuto in Puglia, dove vive attualmente, ha dipinto sui muri in Portogallo, Spagna e Brasile, alternando la ricerca alla pratica. Affascinato dalla tecnica dello stencil, pesca tra i codici visivi delle propagande e della Pop Art e li fonde con quelli classici, tipicamente barocchi. Si occupa di comunicazione ed è fondatore del Mais Festival. Dipinge sotto altri nomi come nel caso di CALLICUT, in un duo (con Roberta Fucci) che unisce il linguaggio della calligrafia a quello figurativo, o come per il progetto PASSARINHOS. Il suo lavoro include collaborazioni con produzioni cinematografiche (nel caso del film Lo Spietato) e con brand di moda (Silvia Massacesi). Crede fortemente nel potere della formazione e dello scambio che esercita da anni in contesti scolastici e di supporto alle disabilità.
Che ricordo hai di quando hai iniziato a fare Street Art?
Ricordo che ho cominciato a Roma, dove avevo deciso di studiare comunicazione. Era una Roma meno satura di opere e sicuramente ricordo di aver cominciato prima da una mappatura dei pezzi che trovavo per strada e in spazi solitamente occupati come i centri sociali. Ho sempre dipinto ma mai per strada. Vivevo in un quartiere, San Lorenzo, che per me era un enorme spazio espositivo. I primi Sten e Lex, Lucamaleonte, Hogre e Alice Pasquini li accoglievo con straordinaria sorpresa e bellezza. In quel periodo, nell’estate del 2004 trascorsa a Londra, fui folgorato dalla potenza degli interventi di Banksy. Tornato in Italia decisi di cominciare a produrre immagini con la tecnica dello stencil. Mi affascinava l’immediatezza dei messaggi e la velocità e riproducibilità che una matrice tagliata a mano poteva garantire.
E poi?
Da allora non ho mai smesso di produrre immagini con questa tecnica. La prima volta che ho dipinto, nel 2006, fu proprio nel quartiere San Lorenzo, nel sottopasso che connette il quartiere a Porta Maggiore, grazie all’invito di Gojo. Ho alternato la ricerca per strada a fasi di produzione in studio, fino a dedicare al fenomeno un progetto di tesi in “Semiotica del testo” in cui analizzavo il cambiamento di alcuni quartieri in relazione alle pratiche illegali e legali di Street Art. Allora non c’era ancora la disponibilità di una letteratura al riguardo e l’etichetta di Street Art non era ancora stata messa su tutte le diverse pratiche artistiche che cambiavano i quartieri. Si potrebbe dire che si era agli inizi di questo processo oggi da tutti riconosciuto socialmente e artisticamente.
Nel mio percorso l’alternanza tra ricerca e pratica è stato il motore per produrre messaggi visuali in ogni luogo in cui ho vissuto, e prima di far ritorno a casa, in Puglia, questo è successo a Lisbona, in Brasile, a Florianopolis, e a Madrid. In ogni caso ho sempre subito l’influenza di quei luoghi e di tutta la vita che lì ho respirato.
In che direzione sta andando ora la tua ricerca?
Sono in una fase del mio percorso molto intensa. Dall’utilizzo di stencil e spray per pareti di piccole dimensioni sono passato alla pittura elaborata a pennello su muri molto più grandi. Sono passato da un lavoro di sintesi relativo alla tecnica a un lavoro più raffinato che ha per scopo la stilizzazione del messaggio, la concentrazione cioè su ciò che voglio comunicare sapendo ormai come comunicarlo, avendo acquisito consapevolezza delle mie tecniche espressive. Passo molto tempo in studio a riflettere sul modo migliore di comunicare le mie idee, spesso complesse, attraverso immagini immediate. Il mio sforzo risiede soprattutto nella resa concettuale dei testi che produco, con uno sguardo sempre più attento alla sintesi e all’impatto del messaggio.
Quali sono i temi che ti stanno a cuore?
Mi interessa parlare dell’universalità di valori condivisi, utilizzare i muri, che in genere dividono, come occasione e possibilità preziosa per prendere una posizione nel mondo e condividerla con gli altri. Ritengo che un muro dia un grande vantaggio: la possibilità di capitare fortuitamente sotto lo sguardo di più persone, persone che non stavano cercando nulla e che vengono in qualche modo colte dall’opera e portate dalla meraviglia dell’incontro a un’emozione o a una riflessione.
Mi interessa per-turbare cognitivamente ed emotivamente salvando esteticamente l’opera come metafora di una forma di redenzione anche etica.
Occupandomi di comunicazione, colgo l’occasione di dipingere per strada come un fatto importantissimo per lasciare tracce del mio pensiero. Per strada non mi serve essere in linea con i dettami del marketing, come succede appunto con i progetti di comunicazione.
Uno dei miei ultimi progetti riguarda la rappresentazione dei santi.
Ce ne parli?
Trovo molto stimolante per esempio utilizzare simboli, come quelli dei santi, per sovvertire narrazioni millenarie, avere il potere laico di cambiare il finale delle storie che a loro appartengono, senza necessariamente cambiarne il valore sociale e storico, ma attribuendo nuovi e inediti significati, che poi diventa un modo per farli rivivere in un nuovo concetto di sacro più legato alla vita terrena, alla vitalità dell’uomo. Mi riferisco agli ultimi muri relativi a San Sebastiano e Santo Stefano, entrambi martiri nella narrazione biblica e che non cessano di vivere, anzi rinascono nel mio modo di interpretarli.
La tua definizione di Street Art. Che cosa è per te? È cambiato negli anni il tuo modo di operare e intervenire?
La Street Art è una semplificazione utilizzata per chiudere in un grande calderone pratiche molto diverse tra loro. Per esempio nella Street Art risiedono interventi illegali e legali. Credo che queste due componenti siano già un motivo per distinguere tra chi fa azioni di Street Art non autorizzate e chi invece si occupa di muralismo, o arte urbana. In quest’ultimo caso cambiano i tempi di azione, i mezzi per raggiungere il proprio obiettivo e si può influire maggiormente sul punto di vista di chi si ritrova a osservare dall’esterno. I muralisti esistono da tempo, prima ancora che il termine Street Art inglobasse tutto al suo interno. Per me la Street Art è un’occasione importante per intervenire sulle carenze di una certa pianificazione urbana lasciataci in eredità dal recente modo di intendere gli spazi urbani. Importante, ma non necessaria. Mi spiego. Quando si parla di rigenerazione urbana e delle periferie si tende a individuare negli interventi visivi degli artisti la soluzione a problemi di tipo sociale e architettonico. Ad esempio, chi vive in periferia può accorgersi del divario di distribuzione delle risorse tra centro e periferia, risorse di qualsiasi tipo, di servizi culturali in generale. Non è attraverso delle opere di Street Art che si cambia la condizione del tessuto sociale di quegli spazi. Non credo che la rigenerazione passi per un rapporto di commissione tra organizzatori di eventi culturali, amministratori e artisti. Credo piuttosto nella responsabilità rispettiva di committenti e artisti nel concepire il proprio intervento in chiave di scambio tra contenuto e contesto, nella creazione di un dialogo tra gli abitanti del luogo e l’opera stessa, nella speranza che quest’ultima sia un veicolo di cambiamento sociale.
Quali tecniche utilizzi?
Mi adatto alle caratteristiche dei supporti su cui mi ritrovo a operare. Prediligo la pittura, ma di solito finisco per mixare diversi materiali in una sola opera. Quindi dipingo con spray, marker e pastelli a olio. La tecnica si adatta al tipo di destinazione e materiale su cui dipingere. Per esempio utilizzo molto l’intaglio delle matrici a stencil. Potrei dire che buona parte del mio lavoro si basa sull’utilizzo del taglierino e per fare ciò parto quasi sempre da una base fotografica. Anni fa la mia ricerca fotografica era del tutto analogica, poi ho cominciato con le compatte digitali e da lì ho scoperto le potenzialità della grafica. Il mix e l’arte preziosa del collage hanno sempre fatto parte della tecnica che uso.
Come scegli i soggetti da rappresentare? Vivo la mia produzione artistica in totale scambio con le persone a me più vicine. Ho bisogno di confronto dialettico con chi mi circonda, circa le idee su cui si basano le mie opere. Di solito parto da un’idea e la sottopongo all’esterno (alle persone a me più vicine) per capire se e come arriva agli altri. Parto da una sorta di test sul concetto e in questo modo si generano processi di interpretazione e scambio che rappresentano la parte più stimolante di tutto il percorso. Un’idea non può essere completa senza l’apporto culturale di cui ha bisogno, per cui mi documento, studio, consulto fonti scritte, o cerco di intervistare qualcuno semplicemente chiacchierando con la gente del posto in cui opero. Credo che questo approccio sia quello giusto per codificare un testo visuale per la comunità a cui si rivolge il murale. A pensarci meglio, questo è il metodo che utilizzo anche per curare progetti di comunicazione che non hanno a che fare con l’arte urbana.
Come si sviluppa il tuo processo artistico?
Nella fase più concreta del processo c’è la scelta del soggetto da rappresentare. Questa è influenzata dal tipo di idea alla base dell’opera. Posso scegliere i miei soggetti per somiglianza fisica all’icona (come nel caso dei santi), oppure in base a caratteristiche prettamente espressive. Con le persone che accettano di far parte di questo processo ho bisogno di presentare la mia idea prima di passare al set fotografico. Dopo aver accumulato la documentazione (soprattutto visiva), si valuta la simbologia delle pose, degli sguardi e del corpo che sarà vettore di significati, facendo tesoro della maestria e del genio di pittori classici come Caravaggio, a cui mi ispiro molto. Sono ossessionato dalla rappresentazione della luce e per questo il processo parte dallo studio dei classici, passa per la fotografia e ritorna a un codice pittorico nell’esecuzione dell’opera. In fondo, tagliare stencil è estremo esercizio di sintesi e scissione tra luci e ombre. Questa tecnica mi aiuta molto a essere veloce nell’esecuzione in loco dei dipinti su grandi pareti.
Una domanda che rivolgo spesso è legata al fatto che le opere di Street Art, in particolare, sono soggette alla caducità del tempo. Se fosse possibile, saresti favorevole alla conservazione delle tue opere, oppure non ti interessa o saresti addirittura contrario?
L’arte urbana è effimera di natura e credo che questa caratteristica la renda unica, anche rispetto alle produzioni destinate alle gallerie. La transmedialità delle opere urbane è essa stessa il presupposto di conservazione. Visto che l’arte urbana non conclude la sua funzione in loco, ma viaggia nel web sotto forma di fotografia e video, credo che abbia in queste forme di riproducibilità la propria conservazione. Avendo una formazione da designer della comunicazione, pongo la mia priorità sul processo di creazione dell’opera. Trovo molto interessante vedere l’evoluzione di un’opera nel tempo, la sua trasformazione, e penso che la caducità possa essere, provocatoriamente, un valore su cui fondare un nuovo approccio al tema in questione. Per strada cambiano le regole della fruizione di un’opera. La prossemica non è quella di una galleria o di un museo, l’analisi e l’interpretazione si alimentano del contesto urbano, come per la mia ultima opera, Ritornerai?. Non credo di essere in grado di prendere una posizione netta sulla conservazione delle opere urbane, ma di poter discutere di un nuovo modo di rapportarsi all’arte sì.
Cosa ti colpisce di un artista emergente? Cosa invece ti piace recuperare di un classico?
Rimango impressionato dalla produzione degli artisti in relazione a più indicatori: all’accento che pongono sulla resa dei concetti, oppure in base alla tecnica o in base al processo sottostante all’opera in sé. Le opere classiche per me sono una fonte inestimabile di conoscenza. Da queste cerco di recuperare il più possibile. Lo dico perché puntualmente mi sorprende la perfezione della produzione, della tecnica, della composizione e della narrazione dei classici, in un’epoca in cui non era minimamente prevista la narrazione audiovisiva. Oggi si dà per scontato l’accesso alle opere, la velocità di reperibilità, la riproducibilità tecnica e si entra in un genere culturale quasi sempre attraverso immagini in movimento e con una narrazione uditiva. Se penso a come pittori geniali riuscissero a sintetizzare tutto in un’immagine ferma, mi rendo conto che l’eredità più grande che abbiamo sia quella della produzione classica.
Progetti per il futuro?
Sto preparando un murale sul tema della memoria e ritengo importantissimo il fatto che sarà dipinto in un borgo, Montemilone, dove la memoria rimane un’ancora di salvezza per contesti come quello, destinati a scomparire nel tempo, almeno finché ci sarà continua emigrazione. Continuerò a dipingere in contesti urbani, ad alternare il mio lavoro tra studio e muri senza smettere di viaggiare e conoscere nuovi luoghi.
‒ Alessia Tommasini
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