Spettri e femminismo. Lynda Benglis in mostra a Napoli
Thomas Dane Gallery, Napoli – fino al 14 marzo 2020. La prima volta di Lynda Benglis a Napoli è datata 1953. Una città postbellica, frenetica e chiaroscurale che nelle fratture del tessuto urbano intravede ormai l’eco di un boom stavolta economico. Dai molti ritorni e infiniti viaggi, l’artista, settant’anni dopo, porta alla Thomas Dane Gallery “Spettri”, mostra illuminata che evita qualsiasi tentativo di omologazione e si rinnova di sala in sala.
Malgrado sia oggi impossibile non constatare l’inflazione d’uso del concetto d’identità nell’arte, è altrettanto immediato riconoscere la potenza visiva e provocatrice delle opere di Lynda Benglis (Lake Charles, Louisiana, 1941) in mostra a Napoli. La sua esperienza di donna-combattente, che negli Anni Settanta sfidava i big dell’arte contemporanea sul campo di battaglia della rappresentazione, è infatti celebrata sin dalla soglia d’ingresso pur senza cristallizzare l’esposizione. Bikini Incandescent Column (2002) è una monumentale lampada in carta di forma fallica, un fungo da bomba atomica. L’urgenza del messaggio femminista richiedeva al tempo una forma espressiva immediata, replicata questa volta con luce totemica e ascetica leggerezza orientale. La virilità beffata ha un’ulteriore e non ultima riproduzione.
LE OPERE DI LYNDA BENGLIS
Dichiarato il metro e il metodo, a liberarsi nell’esplosione è una mostra viva, divertente e divertita che celebra i tanti processi creativi e le influenze simboliche e materiche degli infiniti viaggi. Ogni pezzo esposto è memoria e vita. Sui piedistalli le sculture ceramiche richiamano terra e sabbia, sono eruzioni plastiche in piccola scala in cui l’argilla fluisce libera, si dimena in vortici fino a fermarsi sfinita nella brillantezza degli smalti. Sono opere prive di funzionalità, souvenir da esposizione che ricordano Paesi lontani, oggetti d’arte nel senso più alto della definizione. Alle pareti sculture tubolari in rete metallica, carta e glitter compongono una parata colorata e decadente, un barocco mardi gras nella notte di New Orleans. Di forme e altezza differenti, con il fil di ferro a vista o interamente celato dalla carta, offrono l’illusione della forma in lunghe gambe di ballerina, squame di pesci tropicali o pelle di serpente. L’ebbra danza dell’universo prosegue con tre lavori in marmo, impetuose contorsioni biomorfe che rifiutano qualsiasi eco di serenità razionale. L’oggettivazione del corpo umano, che presenta un elemento sferico per distinguere il sesso, è un drammatico memento mori che richiama all’istante i corpi pietrificati di Pompei.
UN’ARTISTA ICONICA
La compiutezza del tutto è un’ultima sala con due sculture in poliuretano che si illuminano al buio, quando il grigio perlaceo delle superfici cede il posto a una fluorescenza verdeggiante. Se Potent Limit III (2011) è un uovo fecondato o una pancia fertile, Ghost of Smile (1974/2016) è un dildo a doppia estremità appeso al camino, trofeo di caccia umoristica alla Benglis più mainstream. Il fallo plastico è, infatti, lo stesso che eternò l’artista su due pagine di Artforum nel novembre 1974: abbronzata, lubrificata e, tra le gambe, il “metro” di giudizio più in voga per misurare l’arte. I gradi da eroina femminista conquistati allora non ne hanno placato il desiderio di sperimentazione e la mostra alla Thomas Dane Gallery apre ad alcune delle sue avventure. Nel turbine di materiali, colori e acrobazie plastiche, possiamo affidarci alla traccia fatale e riconoscibile, formale e politica, di un’artista iconica.
‒ Raffaele Orlando
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