Venezuela. La coreografia di Ohad Naharin, tra memoria e realtà
Un titolo enigmatico, “Venezuela”, per una coreografia speculare eseguita due volte cambiando musica, luci e danzatori, tra canto gregoriano e musica elettronica.
“Una ricerca di movimento” è il suo metodo di lavoro – e non una tecnica ‒, denominato Gaga: un training liberatorio ed energico che punta a far lavorare ed esprimere il corpo portandolo a una consapevolezza delle sue possibilità. Parliamo della Batsheva Dance Company e del suo artefice, Ohad Naharin, direttore artistico dal 1990 al 2018 (dopo aver lasciato le redini della prestigiosa compagnia a Gili Navot), rimasto in carica come coreografo residente esclusivo. È del 2019 la sua ultima creazione dal titolo Venezuela (vista in Italia al Comunale di Vicenza per il Danza in Rete_Festival). E subito viene da pensare alla nazione sudamericana chiedendoci cosa avrà voluto rappresentare Naharin di quel pezzo di mondo. Bisogna però desistere dal cercare risposte e assonanze, perché nelle intenzioni dell’autore non c’è mai un tema specifico, come egli stesso precisa in uno dei suoi noti postulati: “Coreografare offre il privilegio di trasmettere un messaggio chiaro ed eloquente senza dover fornire spiegazioni”, lasciando così spazio al solo potere della danza.
In Venezuela Naharin rimescola le carte del tempo, ovvero divide in due parti di 40 minuti ciascuna lo spettacolo, mostrando l’identica coreografia con la stessa qualità di movimento ma danzata su due differenti colonne sonore, modificando il set luci e sostituendo parte dei danzatori. Questa traslazione speculare ha il potere di evocare nella nostra memoria ‒ ma anche nella percezione fisica degli interpreti ‒ immagini e sensazioni diverse, che si rincorrono e si modificano. Spirituale e rasserenante, quasi uno stato di trance, è la prima parte sulle note solenni di un canto gregoriano. Turbinosa e spiazzante la seconda, sulla composita partitura elettronica rock, techno, trip-hop, rap di Maxim Warat.
LO SPETTACOLO
L’inizio è con l’ensemble, rigorosamente nerovestito, radunato di spalle a noi. Un fluire lento, subito rotto dai gesti di chi si gira e assume posture sbilenche, scompaginando il gruppo con improvvise coppie di tango, saltelli velocissimi, cadute a terra, assoli scomposti e staccati dal gruppo, duetti rap al microfono, attraversamenti della massa avanzando e indietreggiando da destra a sinistra e invertendo le direzioni tali da creare una curiosa illusione ottica. Attimi di buio interrompono e aprono altre sequenze, con le donne che siedono in groppa agli uomini procedendo carponi come cammelli avanti e indietro sulla ipnotica canzone indiana Ae Ajnabi di A. R. Rahman & Sampooran Singh Gulzar; dove una schiera di stoffe bianche come bandiere fatte scivolare dalle mani e lanciate in aria copre il corpo di un danzatore che lentamente se ne libera, striscia, si alza ed è atterrato dal salto di una donna. Altri cadono e si rialzano eseguendo, ciascuno, movimenti diversi tra scatti repentini, distorsioni ruvide e bocche urlanti. E intanto il crescendo musicale elettronico si sovrappone al Kyrie eleison gregoriano fino a diventare assordante. Tutti escono. Rimane una coppia, con lei che cerca di baciare lui, immobile e indifferente.
LA MUSICA
Il silenzio improvviso e il buio che segue aprono alla seconda parte con il gruppo nuovamente di schiena e l’avvio ondeggiante dell’intera coreografia ripetuta stavolta sulla partitura elettronica che include, tra i generi, l’heavy metal dei Rage Against the Machine, il rap di Christopher Wallace (Notorious B.I.G.), il rumore ritmico di Scott Sturgis, melodie arabe, diverse sonorità che inevitabilmente cambiano la percezione della coreografia. Tutto è più esplosivo, la temperatura emotiva più incandescente, i testi rap gridati invece che sussurrati. Unica variante visiva – e di arcano significato – è il rito delle bandiere che ora hanno i colori e le geometrie di diverse nazioni, ma non identificabili tranne quella della Palestina e quella israeliana, questa senza la Stella di David. E non si può non pensare, per tutto lo spettacolo, a riferimenti di conflitti e tensioni, a contesti sociali e politici. Venezuela spiazza per, ancora, l’indubitabile prova di energia e di grandiosa bellezza del movimento degli eccellenti danzatori, per l’astratta purezza e forza della coreografia, e per quell’enigmatica negazione di una valenza significante da parte di Naharin. Per permettere, a ognuno, di compiere un personale viaggio emotivo.
‒ Giuseppe Distefano
https://batsheva.co.il/en/home
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