Fotografare la prigionia. Intervista a Valerio Bispuri
Cosa vuol dire essere privo di libertà? Lo racconta Valerio Bispuri, autore del libro fotografico “Prigionieri”: un viaggio per immagini all'interno delle più importanti carceri italiane.
Ragazzi che hanno sfidato la sorte e che ora ne pagano il prezzo. Donne con lo sguardo fiero, che camminano per le celle oscillando tra la speranza e la rassegnazione. E poi immigrati, camorristi, criminali. Sono loro i protagonisti di Prigionieri, il nuovo libro fotografico di Valerio Bispuri (Roma, 1971), pubblicato da Contrasto: un reportage condotto nelle principali strutture carcerarie italiane, per raccontare lo stato emotivo e psicologico di chi è privo di libertà. Un’indagine fotografica – e antropologica – di cui abbiamo voluto parlare con l’autore.
L’idea di fotografare i prigionieri all’interno delle carceri nasce qualche anno fa. Mi racconti come e perché è iniziato questo percorso?
Il percorso è iniziato circa un decennio fa con Encerrados: settantaquattro carceri sudamericane visitate in tre anni. Dopo le esperienze nei penitenziari di tutti i Paesi dell’America Latina – tra cui Argentina, Venezuela, Brasile e Perù –, ho spostato l’attenzione sul contesto italiano, ed è nato Prigionieri, terzo capitolo di una sorta di “trilogia della libertà perduta”, che ho deciso di realizzare per raccontare gli “invisibili” (o chi non vogliamo che si veda).
Il passaggio alle carceri italiane è stata una scelta meditata o casuale?
L’idea è nata quando sono andato a presentare Encerrados al carcere di Poggioreale. Qui alcuni detenuti mi hanno chiesto di documentare la loro situazione. Una volta ottenuti i permessi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ho iniziato questa avventura. In principio il lavoro doveva essere solo un piccolo “spin-off” sul carcere napoletano. Poi col tempo il progetto si è esteso, toccando le quattro case circondariali più grandi e antiche della penisola – oltre a Poggioreale ho visitato Reggina Coeli, l’Ucciardone a Palermo e San Vittore a Milano –, i penitenziari più recenti – come Capanne a Perugia – e realtà più piccole – come la colonia penale a Isili in Sardegna, il carcere femminile della Giudecca a Venezia o la sessione delle detenute a Rebibbia a Roma. Nel complesso, un viaggio in dieci penitenziari di tutta Italia.
Hai trovato un modo diverso di intendere la prigionia, e dunque l’assenza di libertà, tra la realtà del Sudamerica e quella italiana?
Credo che la privazione di libertà causi le stesse reazioni ovunque. Tuttavia, la differenza sostanziale che ho notato è che in America Latina i detenuti si aiutano di più e, nonostante ci sia molta più violenza fisica rispetto all’Italia, lo spirito comunitario è più forte. Al contrario in Italia c’è meno solidarietà, più individualismo e, di conseguenza, più depressione – non a caso i dati di suicidi in carcere nel nostro Paese sono molto alti rispetto all’estero.
Che sensazione avevi ogni volta che varcavi un ingresso?
Ribalterei la domanda soffermandomi sulle sensazioni che avevo ogni volta che uscivo dalle carceri. Quando varchi il cancello di un penitenziario, entri in una specie di mondo a parte. Ma il vero problema è quando devi tornare di nuovo alla vita reale. Ci sono case circondariali, ad esempio, molto vicine al centro della città, come Regina Coeli a Roma. In questo caso, appena oltrepassato il confine del penitenziario, ti trovi a contatto con uno dei “cuori” della movida romana, con persone che bevono e festeggiano senza neanche avere l’impressione di cosa succeda dentro quelle quattro mura lì di fianco. Uscire dopo una giornata passata dentro al carcere era una sensazione molto forte: dovevo fermarmi un attimo, razionalizzare e abituarmi all’esteriore, alla superficie, al non vedere.
Mi viene spontaneo domandarti allora: quant’è difficile, in queste situazioni, prendere in mano lo strumento artistico e diventare cronista di una realtà così dura? O meglio, in cosa si rafforza e in cosa si rischia di perdere il senso di umanità, vestendo i panni di fotografo?
È una domanda complessa. In realtà i miei sono lavori lunghi, c’è molta introspezione, cosa che fa sì che il lato artistico diventi quasi secondario. Al contrario, l’aspetto primario della mia poetica comporta la necessità di entrare in contatto, parlare, stare il più possibile insieme ai soggetti interessati. Ad esempio, una delle cose che facevo più spesso durante i reportage nelle carceri, era fermarmi a mangiare con i detenuti: condividendo il loro cibo, sedendomi insieme allo stesso tavolo, riuscivo a trovare un forte senso di umanità. A vedere il percorso sulla lunga distanza, posso dire che la fotografia è stata solo una conseguenza.
Cosa cercavi nei soggetti? E cosa hai trovato?
Non credo stessi cercando qualcosa, più che altro osservavo, sentivo quello che mi interessava, ovvero le emozioni dei carcerati, le loro frustrazioni e anche le piccole vittorie quotidiane.
Quello che ho trovato, invece, è stata tanta solitudine e, nel mezzo di questo sconforto, tante persone che provavano a cercare una loro dimensione. Quando si entra in carcere per la prima volta, ci sono sempre varie fasi: la prima è quella dell’incredulità; la seconda è di speranza, mentre la terza è di accettazione – che può sfociare a sua volta in resistenza o depressione.
Ti è mai capitato di trovare detenuti ostili al tuo progetto, o che non volessero essere fotografati? Hai mai avuto la sensazione che ti stessi cacciando in brutti guai?
Pochissimi. Nelle carceri italiane tutti i prigionieri dovevano firmare una liberatoria prima che iniziassi a fotografare, e dunque erano consenzienti. La maggior parte delle persone ha aderito al progetto con molta gioia, perché erano le prime a voler mostrare la loro realtà.
Prigionieri è un lavoro fotografico, ma anche antropologico. Cos’hai imparato da questa esperienza?
Non è facile rispondere a questa domanda in maniera razionale. Quello che si impara fa parte della vita, del mio quotidiano, ma se c’è una parte inconscia che è cambiata forse posso riconoscerla in un’attenzione maggiore alla realtà in generale. Una cosa però posso affermarla: la privazione della libertà, la galera, ovunque sia, è una delle maggiori punizioni che un essere umano possa ricevere.
‒ Alex Urso
Valerio Bispuri ‒ Prigionieri
Contrasto, Milano 2019
Pagg. 176, € 39
ISBN 9788869657917
www.contrastobooks.com
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