Il disegno fra memoria e trauma. Fabio Mauri a Firenze
Museo Novecento, Firenze – fino al 30 aprile 2020. I musei in Italia al momento sono chiusi come misura di contenimento dell’epidemia in atto. Ma la mostra su Fabio Mauri è un appuntamento da mettere in agenda per quando i provvedimenti saranno revocati, così da godersi l’ultimo mese di apertura della rassegna.
Fabio Mauri (Roma, 1926-2009) non ha semplicemente attraversato gran parte del secolo breve. Scomparso nel 2009, ne ha conosciuto in prima persona abissi, lacerazioni, inganni, utopie. Esponente di indiscusso rilievo delle neo-avanguardie della seconda metà del XX secolo, ha descritto con la propria arte una traiettoria autonoma e personalissima, osservando oltre il proprio tempo.
Lo testimonia il progetto espositivo, strutturato in tre parti, promosso dal Museo Novecento di Firenze: alla monografica inclusa nel ciclo espositivo Solo, in occasione del Giorno della Memoria si sono svolte la riproposizione della storica performance Ebrea ed è stato installato, a Palazzo Vecchio, il monumentale Il Muro Occidentale o del Pianto.
LA MOSTRA DEL MUSEO NOVECENTO
Una “premessa necessaria”, che introduce i visitatori nelle categorie di memoria, ideologia e male così ricorrenti in Mauri. Sperimentatore fervido e insaziabile, l’artista ha agito attraverso azioni di costante scavo: si è misurato con pittura, disegno, scultura, installazione e performance, talvolta ibridando queste discipline. Solo. Fabio Mauri rinuncia a propositi di ricomposizione dell’intera parabola dell’autore, concentrandosi sul disegno. Una volontà coerente con la linea curatoriale del museo fiorentino, che tuttavia non produce una visione limitata del percorso di Mauri. È infatti imprescindibile sottolineare, come fatto anche dai curatori Giovanni Iovane e Sergio Risaliti, il senso del disegno per l’artista. Tale pratica è intesa come “un atto performativo e simbolico a un tempo. È denuncia iconica e tracciato grafico di un dolore violento”. E, ancora, “il disegno è essenzialmente progetto” e il suo esercizio riflette l’idea che “cambiando il linguaggio, si migliora il mondo”.
LE OPERE
È, dunque, già negli Schermi, strategicamente collocati all’inizio del percorso espositivo, che avviene il primo incontro con la visionarietà di Mauri, così acuto da elevare, già alla fine degli Anni Cinquanta, un oggetto simbolo della società contemporanea a propria “dimensione ideale”. Sulla scia della sperimentazione, il registro muta, accogliendo guizzi cromatici e tratti morbidi nella serie figurativa Apocalisse. Traducono sulla superficie bidimensionale la suggestione verso la predestinazione i magnifici Dramophone, nei quali la ripetizione di segni, simili ma con diametri crescenti, evoca il concetto di ossessione. Completano la mostra gli scatti confluiti nel libro-opera Linguaggio è guerra, del 1975. Impossibile non riconoscere in essi, ancora una volta, l’attualità di Mauri e la sua capacità di assegnare al linguaggio, ben 45 anni fa, la natura di arma.
‒ Valentina Silvestrini
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