Boris Vian, l’intellettuale sognatore

A cento anni dalla nascita ‒ e a circa sessanta dall’uscita postuma de “La dolce età”, l’ultima sua interpretazione cinematografica ‒, un ricordo di Boris Vian; che non era stato soltanto un attore, ma anche scrittore, poeta, drammaturgo e musicista. Fu un eclettico intellettuale, che, pur essendo ingegnere e impiegato dell’Association Française de Normalisation, riuscì a emergere dal grigiore della banalità.

Nonostante fosse duramente provata dall’occupazione tedesca, la Parigi dei primi Anni Quaranta si mantenne ricca di fermenti artistici e letterari, per la sua ultima stagione di gloria che sarebbe terminata con gli Anni Sessanta. Boris Vian (Ville-d’Avray, 1920 ‒ Parigi, 1959) vi si stabilì per suonare nell’orchestra jazz di Claude Abadie, inaugurando una vita intellettuale frizzante e imprevedibile, all’insegna di uno sguardo sulla società all’apparenza surreale, ma in realtà attento nel coglierne l’impoverimento spirituale in parte lasciato dalla tragedia della guerra, in parte causato dal dirompente fenomeno del consumismo e della conseguente omologazione.

COMBATTERE CON L’IMMAGINAZIONE

Quei romanzi socio-satirico-sentimental-surreali, intrisi qua e là di poesia e di musica jazz, rappresentano uno dei tentativi più coraggiosi e innovativi di raccontare una società che stava perdendo la sua identità e la sua dignità: Vian riesce a disorientare, a provocare una società inerte e ipocrita, incoraggiandola a guardare le stelle, a rifiutare il conformismo, a rompere gli schemi non con atti di violenza, ma semplicemente restando se stessi. Una rivoluzione da compiere restando normali, poco spettacolare, forse, ma più dignitosa di tante altre. Ma Vian non è soltanto questo: la sua letteratura ha anche un lato sentimentale, pur se ambiguo. Tocca infatti la grandezza dell’amore, la fantasia che richiede, la sofferenza che porta con sé, ma anche la noia, l’inevitabile banalità, la morbosità. La schiuma dei giorni e Lo strappacuore sono forse gli esempi più validi della complessità di un fenomeno come l’amore. Un approccio non troppo distante da quello di Éric Rohmer in film quali Il raggio verde o Pauline alla spiaggia. Ma l’individuo del secondo Novecento è soprattutto un prigioniero in città alienanti dove le giornate sono scandite dalla monotonia del lavoro e dalla solitudine. Anticipando il calviniano Marcovaldo, e con una vena persino più amara, già nel 1947 Vian coglie il dramma di individui i cui sogni vengono schiacciati da una quotidianità di cui sono infinitesimi ingranaggi, e dove la loro fatica è sfruttata a beneficio di pochi. L’autunno a Pechino, una stagione e una città che nell’omonimo romanzo (1947) non compaiono mai ‒ un po’ come il beckettiano Godot, a lungo e vanamente atteso ‒, è la metafora di sogni che sfuggono invariabilmente, di pezzi dell’anima che si dissolvono consumati giorno dopo giorno dal materialismo indotto dal sistema.

Boris Vian, Les hommes de fer, 1947. Collezione Gonzalo   Roulmann

Boris Vian, Les hommes de fer, 1947. Collezione Gonzalo Roulmann

IL MONDO ROVESCIATO

Vian (che occasionalmente si firmava anche Vernon Sullivan) trasferisce nel contemporaneo gli aspetti surreali dell’antichità, quel gusto del punto di vista rovesciato, la rottura degli schemi per creare meraviglia e timore insieme. Questo suo stile letterario lo si potrebbe accostare alla visionarietà pittorica del proto-surrealista Hieronymus Bosch, che riempiva le sue tele di modernissime intuizioni dando vita a una carnevalesca parata d’anarchia, vizio, crapula, paradossalmente disseminata di figure più virtuose. Anche Vian immagina una società altrettanto variegata e caotica, dove l’antropomorfo incontra il biomorfo (la ninfea nel polmone di Chloé ne La schiuma dei giorni) ed esistono oggetti come il pianocktail, invenzioni d’immagini e di lingua che fanno dei suoi testi una continua scoperta.
Questa fascinazione per il “surrealismo” antico attinge anche da altre fonti e torna di quando in quando sommessamente, sotto forma di citazione o riferimento: il racconto L’oca blu, nel suo bizzarro andamento, sembra rievocare un’antica filastrocca goliardica tedesca su una strana terra dove si arriva cavalcando un’oca blu, gli orsi cacciano i falconi nel cielo e i gamberi volano al fianco delle colombe. Tonalità più espressioniste ne Le formiche, una raccolta di racconti più affollata di un dipinto di James Ensor, un grandioso, immaginifico, tragico, ironico, amaro affresco di un’umanità variegata, vagamente circense, impegnata a sopravvivere.
Una letteratura ricca d’immagini, dovuta al fatto che Vian stesso fu un pittore; anche se realizzò appena una dozzina di dipinti, quei pochi sono sufficienti a comprendere la sua personale realtà, sempre bizzarra, imprevedibile, propria di chi vuole farsi sorprendere ogni giorno da persone e cose.

IL JAZZ

Fra le varie collaborazioni giornalistiche, quella con Combat, chiamatovi nel 1946 da un certo Albert Camus che ne era caporedattore. Un quotidiano scomodo, di sinistra ma non comunista, che cercava una via civica, al di fuori dei partiti, per la ricostruzione della Francia del dopoguerra. Ma ospitava pure un vivacissimo dibattito culturale animato appunto anche da Vian (fino al 1950), che sostenne con vigore la superiorità del jazz nero su quello bianco. Ammiratore di Duke Ellington, ma non per questo indifferente al nuovo corso del bebop, sapeva passare da atmosfere più meditative ad altre più ritmiche e disimpegnate, ma sempre con una nota malinconica come quella del sax del primo Luigi Tenco. Tuttavia, il suo impegno non stava soltanto nel comporre canzoni, ma guardava anche al lato sociale; pubblicò infatti il libello En avant le zizique (Musika & Dollaroni), ferocemente critico verso l’affarismo dell’industria discografica che sfruttava i musicisti, in particolare se neri. Fu un intellettuale controcorrente, senza paura di mettersi in gioco, di rischiare qualcosa, in nome della verità e dell’onestà intellettuale.

FANTASIA AL POTERE

Chi è oggi Boris Vian? È un personaggio dimenticato al di fuori della Francia, che a scuola non si studia, a casa non si legge, nei club non si ascolta. Eppure, è stato un pensatore di caratura europea, anzi universale, autore non di risposte, ma soltanto di domande, da autentico argonauta che traccia sentieri prima insospettati; è capace di viaggiare fra le stelle e nel folto della giungla, fra le meschinità e i grandi sogni dell’umanità, insomma ci sono i coccodrilli, i dottori, i tartufi, e quel tumultuoso amore che Rino Gaetano celebrerà nella sua Gianna. Di Vian rimane la straordinaria capacità d’invenzione con cui costruisce stupefacenti, disturbanti metafore dell’umanità che, sembra suggerire, sarebbe straordinaria se solo avesse il coraggio di essere libera.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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