La televisione ieri e oggi: intervista al fotografo Stefano De Luigi
A partire dalla mostra alla Other Size Gallery di Milano, il fotografo Stefano De Luigi approfondisce il ruolo e lo sviluppo di un mezzo universale come la televisione, che in questi giorni complessi è chiamata a dare supporto alla diffusione della cultura.
Tra satira e inquietudine, 32 scatti in bianco e nero delineano Televisiva, la mostra di Stefano De Luigi (Colonia, 1964), a cura di Giusi Affronti. Ne abbiamo parlato con lui.
Di cosa tratta Televisiva?
Televisiva focalizza l’attenzione su quell’epoca storica e su quei messaggi veicolati, quei modelli comportamentali che secondo me hanno permeato la società italiana contemporanea. La televisione nel corso della sua esistenza è stata anche molto positivamente efficace. Sempre in Italia, ha contribuito ad alfabetizzare una parte della popolazione. Purtroppo, dopo averla alfabetizzata, negli Anni Cinquanta/Settanta con dei programmi di livello culturale notevole e con una vera missione di utilità pubblica, l’ha anche plasmata negli Anni Ottanta/Novanta verso una visione del mondo nettamente meno democratica, sguaiata, violenta, individualizzando l’agora politica e magnificando l’edonismo e l’apparenza come unica vera moneta corrente. Provocando insomma un deficit di cultura importante, deviando o svalutando ogni forma di pensiero costruito sul senso di responsabilità e solidarietà. Contribuendo in modo netto a costruire una società che rifiuta spesso il sacrificio e le responsabilità civili e politiche. Ha instillato, secondo me, i germi del populismo, presenti nella società contemporanea, ha alzato di molto la soglia di tolleranza verso atteggiamenti e parole anti democratiche. Ha prodotto la cultura del “noi” contro “loro”, insomma una diseducazione civica di massa.
Cosa desideri comunicare attraverso gli scatti di Televisiva?
Quello che è visibile nella mostra rappresenta la punta dell’iceberg rispetto a un progetto durato sei anni e lasciato maturare per un quarto di secolo. Esiste una versione molto più estesa, omogenea ed esaustiva di Televisiva, che però non ha incuriosito nessuno per il momento, e penso a fondazioni e istituzioni pubbliche che ho provato a sollecitare. Quello a cui tengo, e che spero si evidenzi, grazie anche all’ottimo lavoro che la curatrice Giusi Affronti ha svolto su questa selezione concisa, è evidenziare la relazione profonda tra ciò che si vedeva in televisione negli Anni Novanta e la società contemporanea. Questa girandola di sentimenti virtuali, questo circo volgare, assordante, disperato che ha contaminato la società reale con dosi massicce di messaggi, di misoginia, di egotismo sfrenato, di violenza latente, di cinico ed egoista disincanto.
E dunque qual è il tuo punto di vista?
La mia è un’ipotesi, certo, e come tutte le ipotesi è sottoposta a verifiche, ma ho il netto sentimento quando guardo quei “momenti televisivi” che qualcosa sia filtrato nel mondo reale. Che parte dei veleni di quella televisione, stupida, cattiva e sguaiata, ma venduta come vera esigenza di un fantomatico pubblico (popolo) che voleva questo, si sia sedimentato nel corpo sociale. La sintesi? Ci sono alcune foto che illustrano bene una collisione tra la società- spettacolo e quella reale, Rocco Casalino che si specchia nella casa del Grande Fratello, Wendy che fa la parodia scollacciata delle conferenze stampa a Montecitorio o anche Irene Pivetti già presidente della camera dei deputati (terza carica dello stato) distesa in amabile conversazione con Platinette, conduttrici spensierate di una trasmissione ad alto contenuto informativo come Bisturi. Dal reale al virtuale e ritorno.
Hai vinto quattro volte il World Press Photo Award e altri importanti riconoscimenti per la fotografia giornalistica ed editoriale. Cosa pensi della fotografia artistica a confronto di quella documentaristica?
C’è posto per tutte le anime sotto il tetto delle discipline artistiche. Quello che chiedo a me stesso e alle fotografie che vedo, siano esse catalogate come artistiche o documentaristiche, è di sorprendermi. Di sollecitarmi, soprattutto di non annoiarmi con la retorica né con il conformismo o un formalismo sterile o ancora peggio manierista.
Le buone foto hanno una dimensione che va oltre un contenuto bidimensionale, sono quelle che impongono una lettura a più livelli e una complessità nell’interpretazione tale da renderle quasi degli oggetti misteriosi, tanto sono cariche di significati reconditi. Quindi la distinzione tra documentaristico e artistico, a questo punto, per me ha poca importanza. È utile a un mercato dell’arte che ha bisogno di riferimenti precisi per stabilire anche dei criteri economici di vendita. Les rencontres d’Arles sono per questo un ottimo esempio di sintesi, perché propongono spesso uno sguardo trasversale sulla fotografia contemporanea, senza fermarsi alle catalogazioni, cercando di far convivere generi e sguardi di orizzonti diversi.
‒ Elena Arzani
(Vi consigliamo di verificare l’apertura della galleria e di aderire all’invito #restateacasa. Non equivale certo a una visita di persona, ma qui sotto trovate tante immagini. N.d.R.)
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