Ecco come è andata ai galleristi italiani l’edizione 2020 dell’Armory Show di New York
Tra curiosità, buone vendite e qualche preoccupazione e incertezza (e l’ombra del Coronavirus), si è conclusa la settimana dell’Armory Show di New York. E mentre la fiera annuncia un cambio date a settembre per l’edizione 2021 Artribune vi racconta come è andata per i nostri connazionali.
Si è chiusa domenica a New York la ventiseiesima edizione di The Armory Show, iniziata giovedì 5 marzo. La paura per il coronavirus non ha avuto la meglio su uno degli appuntamenti più importanti per il mondo dell’arte americano e pubblico e galleristi hanno chiuso le contrattazioni in un clima di generale soddisfazione. L’Armory è un evento imperdibile per i collezionisti della east coast e, di conseguenza, per tutte le gallerie internazionali che quel pubblico vogliono intercettare. Tra queste, tante, come sempre, le gallerie arrivate dall’Italia, una quindicina in tutto, distribuite tra le diverse sezioni della fiera che quest’anno, per la prima volta, ha dedicato un intero padiglione ai progetti curatoriali. Non ci sono state defezioni tra gli italiani e nel complesso il bilancio di questi quattro giorni è positivo. Nella sezione principale, con un booth ben posizionato di fianco a uno dei progetti della sezione Platform, si incontra la torinese Mazzoleni che quest’anno è arrivata a New York con diversi progetti. Il primo, More Than Words…, presenta una selezione di artisti italiani e internazionali per i quali la parola o il linguaggio costituiscono un elemento espressivo essenziale. Accanto alle opere di Vincenzo Agnetti, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Mimmo Rotella, Salvo e Mario Schifano, erano esposti lavori in carta strappata e collage della giovanissima Rebecca Moccia e una parete di simboli del macro-progetto Etimografia di David Reimondo. Un’altra parte dello stand era invece dedicata all’artista americana Melissa McGill, con i lavori legati al suo grande progetto di arte pubblica Red Regatta, svoltosi tra il maggio e il settembre del 2019 nella Laguna di Venezia, in concomitanza con la 58ª Biennale.
L’OMBRA DEL COVID-19 ANCHE A NEW YORK?
Si tratta, come ci ha spiegato il direttore Jose Graci, di “una riflessione originale sui problemi di sostenibilità ambientale e tradizioni storiche, che si configura come anteprima della personale che presenteremo in primavera da Mazzoleni a Londra”. Infine, un angolo dello stand a sé stante, era dedicata ad alcuni degli artisti storici di Mazzoleni come Fontana, Burri e Manzoni. “The Armory Show”, ha continuato Graci, “è una delle fiere simbolo della città di New York. C’è un pubblico di collezionisti e visitatori molto preparati che conosce molto bene i grandi nomi e non disdegna le nuove proposte. Vivace anche la presenza di giovani curatori. I collezionisti hanno risposto in modo positivo alla nostra proposta, che per la prima volta ha presentato, oltre ai nostri artisti storicizzati, anche alcuni più contemporanei”. Il tema del linguaggio si ritrova anche nella presentazione di Vistamare, galleria pescarese con sede anche a Milano, che, per questa sua quinta volta all’Armory, ha portato una selezione di lavori di Joseph Kosuth, Tom Friedman, Bethan Huws e Rosa Barba, che riflettono sulle forme del linguaggio e dell’informazione contemporanei e su come queste si manifestano e si declinano nei diversi media. Anche loro soddisfatti dei risultati della trasferta newyorchese che, ci hanno detto, non ha particolarmente risentito degli allarmi sul COVID19: “è andata abbastanza bene tra vendite e nuovi contatti. Le presenze non ci sono sembrate così inferiori rispetto agli anni passati. Certo, si vedono in giro persone con le mascherine sul viso, ma la curiosità per l’arte è evidentemente più forte della paura”. Qualche contraccolpo lo hanno invece avvertito alla galleria A arte Invernizzi di Milano, dove ci raccontano: “abbiamo lavorato ma, purtroppo, la situazione attuale non ci ha permesso di incontrare alcuni nostri collezionisti americani che ci hanno avvisato che non sarebbero passati in fiera”. Il sobrio e arioso allestimento e le opere minimali meritavano comunque una fermata.
L’IMPORTANZA DI ARMORY SHOW
La presentazione ha voluto creare un dialogo tra le opere di Mario Nigro e quelle di altri tre maestri dell’arte europea: Alan Charlton, François Morellet e Niele Toroni. La galleria aveva scelto Mario Nigro anche l’anno scorso, dedicandogli una personale per quella che era stata la sua prima partecipazione all’Armory. È invece una presenza familiare in fiera la Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. che quest’anno ha presentato un dialogo tra Joan Mirò e Antoni Clavé. “Quando i due artisti si sono incontrati a Parigi negli anni Cinquanta”, ci ha raccontato Alessia Calarota, direttrice e proprietaria, “hanno capito subito di avere molto in comune, anche ad un’occhiata superficiale le similitudini sono evidenti. Entrambi sono nati in Spagna e hanno vissuto in Francia, entrambi si avvalgono di giochi cromatici e di una grande varietà di materiali, entrambi hanno esplorato differenti tecniche: dalla pittura alla scultura, dall’incisione all’arazzo, dalla ceramica alla scenografia di opere e balletti. E, ancora più importante, citando le parole di Pierre Restany, ognuno alla sua maniera, ma sono entrambi poeti del reale”. E il pubblico deve aver apprezzato perché lo stand è stato sempre affollato. Galleria d’Arte Maggiore g.a.m. partecipa alla fiera già dal 2009. “Di tutte le fiere che si tengono a New York”, ha proseguito Calarota, “questa è stata la prima ad avere luogo in città e ad avere una vocazione internazionale per le gallerie che vi partecipano. È una delle poche che attira tanti collezionisti da ogni parte degli Stati Uniti, soprattutto dall’East Coast. Il nostro rapporto con The Armory show è di lunga data e si è consolidato dal 2010 al 2019, quando abbiamo fatto parte del Selection Committee. Sono anni che suggerivamo lo spostamento in altra data e in altra location e siamo felici che finalmente la fiera, a partire dal 2021, abbia trovato un nuovo spazio all’interno del calendario e che abbia luogo in un’altra location”.
IL CAMBIO DATE E DI LOCATION
È notizia di questi giorni, infatti, che nel 2021 la fiera si svolgerà dal 9 al 12 settembre e si sposterà nel vicino Javits Center, che ospita alcuni dei principali eventi fieristici in città. I vecchi moli che attualmente ospitano l’evento erano da tempo motivo di preoccupazione e causa di problemi: l’anno scorso, a una settimana dall’apertura della fiera, uno dei due Pier che fino al 2018 accoglievano gli stand dei galleristi era stato dichiarato pericolante e le installazioni erano state spostate su un molo più in giù, rendendo impossibile il collegamento interno tra i due padiglioni e costringendo il pubblico ad uscire in strada per spostarsi tra l’uno e l’altro. Ben venga quindi il cambio di location che restituisce dignità e fruibilità alla fiera d’arte più newyorchese che ci sia. Non se la fanno mai mancare quelli della bolognese P420, ormai alla sesta edizione di fila. Nel 2015 avevano iniziato con una presentazione monografica dedicata a Irma Blank e quest’anno sono tornati con la stessa artista, ormai storicizzata e ben nota al pubblico americano, associandole altri nomi. Ce lo ha raccontato Fabrizio Padovani, uno dei fondatori della galleria: “Abbiamo portato Riccardo Baruzzi, già più volte presentato qui a NY, dove ha sempre avuto molta attenzione. Ma c’è stato spazio anche per due novità: Adelaide Cioni, che coi i suoi popsicles ha letteralmente conquistato il pubblico americano con un sold out totale e ottime citazioni e recensioni, e, a sorpresa, il giovanissimo e talentuoso Victor Fotso, con una serie di tre sculture in ceramica realizzate a Faenza”. Ai buoni risultati si contrappone tuttavia una sensazione di generale sottotono: “Siamo del tutto soddisfatti del risultato ma credo comunque che diversi collezionisti siano mancati quest’anno e il pubblico era leggermente meno energico degli scorsi anni. Effetti da coronavirus? Per stringerci di nuovo le mani aspetteremo il prossimo anno…”
LE SEZIONI CURATE
Spostandosi nel padiglione dedicato alle sezioni curate, si incontravano altri italiani. All’interno di Perspectives, che metteva insieme 18 gallerie con opere del primo Novecento e del Dopoguerra presentate attraverso una lente contemporanea, c’era Montrasio Arte, alla quinta edizione dell’Armory. Fedele alla propria linea di ricerca, la galleria milanese ha proposto un dialogo tra le opere dei grandi maestri e il lavoro di giovani artisti. Antonio Ottomanelli è posto in relazione con Dennis Oppenheim e Gordon Matta-Clark; il dialogo prosegue con le opere di Jannis Kounellis, Carlo Dell’Amico e Gianni Moretti per concludersi con Angelo Savelli e Salvatore Scarpitta: “due personalità”, hanno spiegato dalla galleria, “che hanno rappresentato un ideale ponte di comunione tra la cultura americana e quella italiana”. Vendite positive per le opere dei giovani artisti, ci hanno detto, ma l’impressione è che ci sia stato un calo di presenze rispetto agli anni precedenti. Era invece nella sezione Focus, riservata a booth monografici o con un massimo di due artisti, Officine dell’Immagine che ha portato la nigeriana di base negli USA Marcia Kure, con una presentazione centrata sul concetto di identità e multiculturalismo che comprendeva alcuni collage e un’installazione che la galleria ha venduto fin dall’apertura. Il direttore, Marco Massaro si è detto contento: “Il primo giorno soprattutto, quello dedicato ai VIP, è stato molto positivo. Abbiamo venduto l’installazione più importante che presentavamo ad un collezionista privato americano. Nei successivi tre giorni un altro paio di collage”. Nessun effetto collaterale da virus, solo un po’ di curiosità nei confronti di una galleria arrivata da Milano mentre dall’Italia venivano notizie di blocchi e chiusure: “Qualche visitatore, più che impaurito, si chiede com’è la situazione in Italia e si sorprende che siamo riusciti a giungere negli USA senza problemi. Per il resto, evitiamo di porgere la mano, come fanno un po’ tutti qui”. Poco male finché le vendite vanno bene: vorrà dire che bisognerà trovare un modo nuovo per suggellare la chiusura di un buon affare.
–Maurita Cardone
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