Contenuti culturali online, ma c’era bisogno del Covid-19? Intervista a Giulio Alvigini
Pronta la risposta dei musei all’hashtag #iorestoacasa, ma c’era bisogno del coronavirus per approdare sulle piattaforme social?
L’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19 ha rivoluzionato le nostre abitudini quotidiane, è vero, ma anche la comunicazione ne ha risentito trovando nuovamente il proprio ruolo nevralgico nella divulgazione di contenuti. Ma c’era davvero bisogno di un’emergenza di questa portata per far entrare “a gamba tesa” nella rete, le istituzioni culturali nostrane? Lo abbiamo chiesto a Giulio Alvigini (Tortona, 1995) fondatore della pagina Instagram e Facebook Make Italian Art Great Again che, tra satira e irriverenza, svela il mondo dell’arte e ne rimodula la comunicazione.
Giulio, prendiamo a riferimento il video lanciato su Instagram all’alba dell’inaugurazione dell’iniziativa #iorestoacasa, cui hanno risposto moltissimi poli museali. Che ne pensi?
Partiamo da un presupposto, una sorta di ritornello cantilenante che tutti noi, in queste durissime giornate, ci siamo ripetuti più volte: di fronte all’indescrivibile emergenza che stiamo vivendo e alla più che sacrosanta chiusura degli spazi e dei luoghi di fruizione, oggi più che mai la cultura e l’arte hanno l’occasione – ma potremmo anche azzardare “il dovere” – di riconfigurare le pratiche operative e ripensare il proprio ruolo all’interno delle dinamiche sociali, sfruttando quel percettibile spiraglio di funzionalità attivate dall’emergenza Covid-19.
E come?
Al cospetto degli obblighi di chiusura e sospensione di tutto quel bagaglio di attività caratterizzanti la normalità di gestione e fruizione in situ delle istituzioni culturali, abbiamo assistito – e testimoniamo tutt’ora – ad una grandissima prova di forza e di coraggio da parte dei nostri musei, che prontamente si sono adoperati per tradurre, approfondire e talvolta occupare ex novo spazi e soluzioni inedite offerte dalla rete. Intuizioni anche molto semplici, come l’hashtag #iorestoacasa, hanno dimostrato e confermato l’efficacia di strumenti – in particolare i social, ancora non del tutto adeguatamente impiegati dal mondo dell’arte – che attraverso la banalizzazione e la superficialità a cui spesso essi obbligano (Perniola docet), si sono rivelati ottimi dispositivi catalizzanti, simbolici aggregatori sociali sorprendentemente più convincenti di qualunque altra modalità persuasiva.
Quindi, bravi tutti!
but maybe…
Maybe?
Ribaltando la citazione batmaniana, credo di aver dato corpo a quel presentimento di “finto movimento” che alcuni protagonisti della comunicazione dell’arte in Italia, come il sottoscritto, hanno percepito: l’accelerazione compulsiva, l’ostinata rincorsa e l’aprioristica appropriazione di nuove narrazioni digitali imposte dall’attualità, hanno messo a nudo il ritardo, l’inconsapevolezza e l’inadeguatezza di buona parte della produzione comunicativa nostrana. Come accennato sopra, la nuova contezza e la velocità con cui le realtà museali hanno abbracciato le potenzialità dei nuovi media digitali è lodevole e fondamentale, ma la considerazione successiva deve contestualizzare questa presa di coscienza fuori dal recinto della straordinarietà del presente, per porla all’interno della cronistoria degli eventi riconducibili alle vicende della comunicazione dell’arte in Italia dell’ultimo decennio.
Spiegaci meglio…
Quello che appare alla lettura è una più che visibile frattura tra chi, negli ultimi anni, si è distinto per intuitività e creatività nell’intercettazione di percorsi insoliti ed originali – conseguentemente premiati – e chi invece, per motivazioni ragionevolmente e strutturalmente lecite, ha preferito non affiancare una controllata e coerente presenza online alla dimensione fisica del museo. Inevitabile, alla luce di questi ragionamenti, pensare che in mancanza dello stato di urgenza generatasi, probabilmente questa nuova ed autentica complicità tra istituzione museale e digitale, qui in Italia, avrebbe tardato il suo avvento.“Meglio tardi che mai”, “di necessità virtù” e altri qualunquismi vanno benissimo fino ad un certo punto: celebrare e festeggiare più del dovuto questa tardiva vocazione del museo mi sembra attività leggermente menzognera.
Quali criticità e quali potenzialità hai notato?
Tra le potenzialità, oltre a quelle già citate, vi è sicuramente un’attitudine che in queste giornate si è manifestata come una delle azioni più fruttuose: il “fare rete”. La costruzione del sistema virtuoso di dialogo, non solo con il pubblico ma anche e soprattutto tra le istituzioni, credo che sia tra i più interessanti antidoti all’asfissiante anti-sistematicità del sistema dell’arte nostrano. La lista delle potenzialità potrebbe allungarsi, ma credo che la tematica sia già stata ampiamente approfondita da chi in questi giorni ha detto la sua.
E le criticità?
Le criticità possono riguardare la sgangherata qualità di alcuni contenuti – perdonabile ovviamente, vista anche le stringate possibilità di risorse umane attivabili – e la sovrapproduzione di contenuti non sempre necessari. Ma soprattutto in quel “ritardato avvento” che, a parer mio, possiamo rintracciare un’evidente considerazione: l’affanno e l’inseguimento innescato nel guardarsi intorno e osservare i competitor, ha provocato una congestione ed un appiattimento su pratiche standard della proposta creativa da parte di moltissime realtà (salvo naturalmente alcune esemplari eccezioni).
Puoi farci degli esempi tangibili?
Esempi vincenti sono sicuramente le iniziative della Triennale e di Schermo dell’arte, ma insieme a loro l’elenco di progettualità fuori dagli schemi (ma sugli schermi) è variegato e individuabile anche nei gusti e stimoli personali. Mi ha fatto simultaneamente sorridere e rattristare apprendere che in questi giorni la Galleria degli Uffizi abbia aperto la sua pagina Facebook. Intenerisce perché, pensando al riconoscimento internazionale del museo, l’iscrizione su Facebook si sarebbe dovuto verificare agli albori della piattaforma, mentre il vero passo innovativo di qualche giorno fa avrebbe dovuto essere quello di aderire a un social network più recente (come ad esempio TikTok). Nel mezzo, tra gli estremi, vi troviamo un mare di onestà e genuina mediocrità.
Rispetto all’estero, in cui la veicolazione di contenuti e approfondimenti su piattaforme social è ben avviato da tempo, quanto ritardo trovi nelle nostre istituzioni culturali?
Credo sia un dato difficile da quantificare oggettivamente. Anzi, forse smetterei anche di chiedermelo e adagiarmi su un’inutile e controproducente esterofilia. In questo campo, come in tanti altri, non esiste un modo corretto e proficuo adattabile per tutti; ogni contesto necessita di formulazioni e soluzioni designate ad hoc per ottimizzarne una mirata e specifica strategia.
Tu parli della Fondazione Sandretto di Torino e del Museo Madre di Napoli, luoghi in cui questa “rivoluzione digitale” è partita da anni. Sulla base della tua esperienza e del continuo confronto, spiegaci, cosa si può definire – oggi- “rivoluzione digitale” in riferimento alla comunicazione culturale?
Utilizzando il termine “rivoluzione” ho cercato di sintetizzare l’entusiastica lettura mediatica dell’ondata di azioni diffuse in questi giorni. In ambito teorico sarebbe più preciso parlare di “svolta” anche se, in questa determinata condizione, sarebbe altrettanto improprio servirsene. Conseguenza della rivoluzione tecnologica, la svolta digitale del museo è riconducibile a quell’insieme di ripensamenti, smottamenti e riposte che l’edificio museale ha incassato e attivato di fronte alle radicali trasformazioni (produzione, fruizione, comunicazione, tutela e valorizzazione delle opere d’arte) generate dalla preponderante presenza nella nostra quotidianità della connettività e del rafforzamento delle realtà digitali.
Quando si concluderà questo brutto periodo di chiusura e si tornerà alla classica routine, il digitale cadrà nuovamente nel dimenticatoio?
Ecco, questa sarà la grande scommessa dell’epoca post-epidemia: confermare la portata propositiva che la condizione contemporanea ha innescato e trasformarla in fresca e attiva coscienza. Ripartire, dimenticandosi tutte le settimane di sforzi e sacrifici fatti, sarebbe la vera sconfitta per la cultura.
Ma sono ottimista! W i musei italiani!
–Valentina Muzi
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