L’arte rotta (XI). Consumo, velocità, tempo e opera
“Le opere e i loro autori sono sollecitati da tutto ciò che sta accadendo a cambiare, a trasformarsi radicalmente. Ma questa trasformazione non può che appoggiarsi a sua volta a un recupero altrettanto radicale della funzione trasformatrice dell’arte e della cultura, che è esattamente ciò che è stato svalutato, ridicolizzato e rimosso negli ultimi decenni”. Nuovo capitolo della serie di Christian Caliandro dedicato all’“arte rotta”.
“I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati” (Albert Camus, La peste, Bompiani 1980, p. 30).
Come abbiamo visto, il consumo non è l’unica dimensione possibile per l’opera d’arte contemporanea ‒ ed è anzi quella che forse maggiormente viene investita dalla situazione attuale. Giorno dopo giorno, e con fatica, stiamo comprendendo come molti dei cambiamenti che stanno investendo la nostra vita in maniera così traumatica non scompariranno affatto dopo l’emergenza, ma rimarranno a lungo e ci modificheranno in profondità (come già hanno iniziato a fare).
UN CAMBIAMENTO RADICALE
Le opere e i loro autori sono sollecitati da tutto ciò che sta accadendo a cambiare, a trasformarsi radicalmente. Ma questa trasformazione non può che appoggiarsi a sua volta a un recupero altrettanto radicale della funzione trasformatrice dell’arte e della cultura, che è esattamente ciò che è stato svalutato, ridicolizzato e rimosso negli ultimi decenni: vale a dire che le opere non possono e non potranno più essere oggetti decorativi, beni di lusso che non intrattengono alcun rapporto con la vita delle persone se non appunto come oggetti di consumo, ma che dovranno essere ripensate per diventare ciò che erano e ciò che si apprestano già oggi a essere ‒ parte integrante cioè di questa stessa vita. Mai come in questo momento, forse, c’è bisogno di opere che funzionino un po’ come dei “modelli esistenziali”.
Il tempo – con la sua dilatazione, di cui parlavo qui ‒ costituisce certamente la dimensione centrale di questo processo, che tende a comprendere e inglobare tutte le altre. In una logica e in un regime di distrazione perenne, di velocità degli scambi e della visione come quello che ha caratterizzato il sistema artistico degli ultimi decenni, uno dei fenomeni più evidenti è stato indubbiamente la spettacolarizzazione che ha investito le opere: se da un lato essa è stata estremamente congeniale al tipo di committenza che si è venuta affermando di recente (moda, design), dall’altro si è presentata efficacemente come la diversione più efficiente e al tempo stesso l’antidoto immediato ai dubbi strutturali che le precedenti crisi hanno posto anche a questo settore. In quest’ottica, dunque, il museo lo spazio espositivo e l’opera si sono spostati sempre più verso il territorio dell’effimero, dell’entertainment, del “teatrale, performativo, divertente” (Jerry Saltz).
L’ENTERTAINMENT
Mi sembra chiaro che – insieme alla velocità di fruizione – ciò che viene messo in discussione immediatamente dall’emergenza attuale sia proprio il territorio dell’entertainment, la predisposizione all’intrattenimento considerata fino a pochissimo fa come indiscutibile, ovvia: l’opera è di nuovo chiamata (innanzitutto da se stessa) ad altro, a fare altro e a esercitare altre funzioni.
Mi viene in mente, per esempio, il modo in cui ci è stato sempre raccontato dai manuali e dai media il Lightning Field (1973-79) di Walter De Maria – attraverso le fotografie iconiche dei fulmini che colpiscono i pali conficcati nel deserto del New Mexico – e il modo in cui lo racconta invece Germano Celant nel 1980. La descrizione si sofferma sulle modalità di fruizione, dal numero ridotto di visitatori alla durata minima (ventiquattro ore) di ogni sopralluogo, al percorso necessario per raggiungere il sito e le modalità giuste della percezione di un oggetto che così diventa ‘situazione’: “Il Lightning Field rovescia la logica museale, e a una quantità enorme di spazio fa corrispondere un unico lavoro d’arte e un numero ridotto di visitatori. Come l’esperienza sonora che dilaga nello spazio e isola, singolarmente, i suoi ascoltatori, esso trasferisce tale condizione all’arte e rende l’intangibile una realtà personale. (…) C’è da chiedersi allora se le caratteristiche, che si mostrano durante la visita, si modifichino e quanto tempo, in termini di giorni, stagioni ed anni, occorre per osservarle. La partitura è infatti la stessa, ma l’esecuzione dell’ambiente muta di continuo” (Domus, 606, maggio 1980).
La foto, la riproduzione di un lavoro come questo è una cosa dunque – la sua verità e quella della sua esperienza un’altra, completamente diversa (“Nel giorno del mio sopralluogo, la temperatura ha oscillato da meno 17 a più 21, con neve e pioggia improvvise, ma niente fulmini, per cui ho sentito il pericolo della mia situazione, ma non l’ho percepito visualmente”). Come scriveva Maria Lai nella sua nota all’interno della scorsa puntata: “Ogni opera d’arte chiede intorno a sé un vuoto, una distanza e molto silenzio”.
Su scala meno titanica rispetto a quella di De Maria, chiudo per ora con un’altra immagine che mi viene in mente: un’opera che si comporta, e funziona, un po’ come un’edicola votiva.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
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