Pezzi di storia che se ne vanno. Renato Barilli ricorda Alberto Arbasino
Erano insieme nel Gruppo 63, Renato Barilli e Alberto Arbasino. Ora il critico d'arte e letteratura ricorda il compagno di strada, i suoi esordi, le sue intenzioni, il suo stile, la sua anima pop.
Si sapeva da tempo che Alberto Arbasino stava male, ma, come si dice, finché c’è vita c’è speranza. Però un segno eloquente della sua imminente uscita di scena stava nel fatto che su Repubblica non apparivano più quegli articoli-fiume in cui egli esercitava un suo carattere specifico, la trasversalità, la capacità di investire in un unico discorso il turismo, le arti al completo dalla musica al teatro alla pittura, e non mancavano neppure pungenti note politiche e di costume.
Questa era stata una sua peculiarità, fin dal primo presentarsi come narratore nel corso dei Cinquanta, non senza qualche iniziale fraintendimento. Infatti, influenzato dal successo di due suoi coetanei, Pasolini e Testori, si era messo in squadra con loro dichiarandosi “nipotino dell’ingegnere”, con riferimento a Carlo Emilio Gadda, ma con quella formula egli faceva torto a se stesso, in quanto già allora si trovava di una buona spanna più avanti dei suoi pretesi compagni. Pasolini e Testori, sul finire degli Anni Cinquanta, erano vittime di una pesante nozione di “impegno” che li portava a fare causa comune con il sottoproletariato, sforzandosi di abbracciarne lo stato di bassa cultura. Pur essendo essi stessi raffinati intellettuali, erano pronti a fare sacrificio delle loro doti, credendole indebite, quasi provandone vergogna. D’altra parte, lo stesso Gadda in definitiva risultava vittima di un errore di segno contrario, nella sua prosa abusava delle sue qualità di borghese illuminato facendo la baia al “popolo”, sottoproletari ma anche borghesi arricchiti e ignoranti.
Arbasino invece è stato presto adottato, assunto come prototipo dalla neoavanguardia, dal Gruppo 63, perché, con Fratelli d’Italia aveva capito che bisognava ragionare alla pari, non vergognarsi di una acculturazione che era il prodotto dei tempi, del boom consumistico. Ci sono i consumi culturali come quelli nelle merci e negli aggeggi tecnologici più avanzati, occorre porsi alla loro altezza. In altre parole, Arbasino ha aderito alla causa di una Pop Art divenuta, per dirla con Calvesi, una avanguardia di massa, fino a includere una larghezza mentale anche nei consumi sessuali, sbloccando per esempio la causa della omosessualità, verso cui la sinistra ufficiale era rimasta pudibonda, ritenendola un lusso da lasciare soltanto alla classe borghese.
Aggiungerei anche un ulteriore pregio intrinseco alla narrativa di Arbasino, il carattere di leggerezza, di illimitata estensione quantitativa, un carattere su cui io personalmente ho sempre insistito, come proprio del secondo Novecento, rispetto alla prima metà del secolo. Era facile trovare i palinsesti dell’operazione di Arbasino in Hemingway, in Fitzgerald, ma bisognava appunto aggiungere un aspetto di allargamento, di invasione capillare.
Devo dire che proprio questo senso di estensione volutamente depotenziata mi aveva lasciato all’inizio un po’ perplesso, rispetto a quella inondazione in apparenza di poco spessore. Io sono stato sempre portato a cercare un certo rigore nelle procedure, è la ragione per cui allora insistevo soprattutto sul nouveau roman, di Robbe-Grillet e di Butor fra gli altri, lasciando Arbasino agli amici del Gruppo 63. Ma in seguito ho sempre più aderito al suo passo sicuro, travolgente, anch’esso in definitiva non privo di metodo.
Mi ha convinto in pieno l’Arbasino “citazionista”, del Super Eliogabalo, per esempio, dove quello stesso epiteto di “super” è eloquente di per sé stesso, fa pensare alla “super” di cui si fregiano certi carburanti, e siamo di nuovo alla cultura Pop, con la spinta a fare il pieno, a impadronirsi di ogni possibile stereotipo, alto o basso che sia, per ricavarne un gioioso, trascinante helzapoppin. Che poi è continuato in una lunga carriera, vittima forse di qualche “normalizzazione”, proprio con quegli sterminati articoli in cui l’autore rivisitava, celebrava il mito stesso della sua trasversalità e prensilità, ma in lui il cavallo di razza, lo sperimentatore nato, rimaneva vigile, e dunque ha colto prontamente il richiamo di una nuova moda, anch’essa nel segno del super-popolare, il “rap”, di cui ci ha dato ben due emissioni successive (2001 e 2002). Infine, non ha disdegnato neppure la pratica del “twitter”, e dunque ha osato sacrificare la sua tendenza a fare per esteso, per eccesso entro la misura stretta delle poche parole.
Esempio luminoso, coerente, continuo di un’attività svoltasi tutta nel segno dell’audacia, della spinta a varcare ogni limite.
‒ Renato Barilli
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