L’arte rotta (XIII). L’inimmaginabile
In questi giorni stiamo facendo esperienza di qualcosa che, fino a poche settimane fa, era inimmaginabile. La pandemia, l’isolamento sono diventati aspetti quotidiani della nostra esistenza. Che cosa può fare l’arte rispetto a qualcosa di inimmaginabile?
Con il passare delle settimane, impariamo e disimpariamo molte cose, anche da un momento all’altro, sulla nuova condizione che stiamo vivendo. A volte ci manca l’aria, e scopriamo quanto questa sensazione sia condivisa.
Scopriamo anche – forse lo sapevamo già – che questo isolamento durerà a lungo; che ciò che credevamo provvisorio non lo è forse come immaginiamo, e che quello che pensavamo stabile è invece più fragile di quanto credevamo.
La pandemia interroga l’immaginario, l’immaginazione e la comprensione. Sperimentiamo l’inimmaginabile, ogni giorno e più volte al giorno, e come esso si sia introdotto nelle nostre esistenze con una facilità, tutto sommato, che pensavamo impossibile e che fatichiamo a comprendere. È proprio questa fatica di comprendere, forse, il tratto dominante di ciò che stiamo vivendo: la fatica di comprendere il megaevento che ci è capitato addosso e di cui non distinguiamo i contorni, la fatica di vederne e prevederne le conseguenze, la fatica di fare i conti con qualcosa di così gigantesco…
La mutazione che riguarda l’opera si riferisce alla relazione che si stabilisce con questo inimmaginabile. Se improvvisamente, inaspettatamente esso è diventato realtà, si è concretizzato nel nostro mondo e nel nostro spazio-tempo quotidiano, allora anche l’opera d’arte può usarlo, può viverlo. Da un momento all’altro – in modo anche terribile e spaventoso – tutte le pastoie precedenti, l’immobilità, la paralisi, l’assenza e l’incapacità e l’impossibilità di cambiamento, di fuoriuscita da un sistema percepito come troppo rigido e prescrittivo, delle quali ci siamo lamentati per anni, sembrano svanite, scomparse.
L’ARTE E IL DOPO PANDEMIA
Certamente, anche questa è in larga parte un’illusione. Dopo (ammesso che abbia un effettivo senso pensare in termini di dopo, riguardo a questa situazione) è possibile che tutto torni ancora più rigido rispetto a prima, ancora più esclusivo. È anche possibile ‒ molto possibile ‒che, come mi diceva Laura Cionci l’altro giorno dall’Australia, si verifichi nel tempo una scissione, nel mondo dell’arte così come nel mondo fuori dell’arte: tra un sistema ancora più chiuso, più aggressivo e più competitivo, che accentua e rafforza dunque le caratteristiche precedenti, e qualcosa che è ancora piuttosto oscuro, ma che possiamo al momento dire… il nuovo? il reale? (la verità? l’assenza di finzione?).
L’opera è e sarà comunque al centro di questo processo. Un’opera – quella che funziona e si comporta come un’edicola votiva ‒ intima in maniera inedita, in grado di stabilire un rapporto diretto e profondo con un essere umano che non è più “spettatore”, con una comunità che non è più “pubblico”. In questo senso, l’opera d’arte indica la via d’uscita dallo schema che ci ingabbiava, e rappresenta la concretizzazione e la prima verifica di quell’inimmaginabile che è già penetrato nelle nostre vite, modificandole e trasformandole. (Per quale motivo, infatti, proprio le opere d’arte dovrebbero rimanere ciò che erano prima, mentre tutto sta cambiando?).
CERCARE LA SPERANZA NEL SUO NEGATIVO
Via d’uscita dallo schema, verifica dell’inimmaginabile. Non so esattamente perché, ma mi viene in mente il “cercare la speranza nel suo negativo” nella Lettera a Malvolio (1971) di Eugenio Montale. Questi versi sono una dura risposta alle critiche ricevute da Pasolini per il presunto “disimpegno” mostrato dal poeta nei confronti dell’attualità nazionale e internazionale. Montale rivendica orgogliosamente il suo “prendere le distanze”, sia nell’epoca del fascismo che in quella successiva del boom economico: “Non fu molto difficile dapprima, / quando le separazioni erano nette, / l’orrore da una parte e la decenza, / oh solo una decenza infinitesima / dall’altra parte. No, non fu difficile, / bastava scantonare scolorire, / rendersi invisibili, / forse esserlo. Ma dopo. // Ma dopo che le stalle si vuotarono / l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto / fondarono l’ossimoro permanente / e non fu più questione / di fughe e di ripari. Era l’ora / della focomelia concettuale / e il distorto era il dritto, su ogni altro / derisione e silenzio”.
La poesia si conclude con un potente autoritratto, che delinea anche una possibile strategia di sopravvivenza creativa: “Ma lascia andare le fughe ora che appena si può / cercare la speranza nel suo negativo. / Lascia che la mia fuga immobile possa dire / forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta, / che la partita è chiusa per chi rifiuta / le distanze e s’affretta come tu fai, Malvolio, / perché sai che domani sarà impossibile anche / alla tua astuzia.”
La “fuga immobile” di Montale mi sembra qualcosa che l’opera e il suo autore possono utilizzare e adattare, anche abitare: una situazione in cui immaginare e praticare finalmente l’inimmaginabile, di creare possibilità là dove non sembrano esisterne e di “cercare la speranza nel suo negativo”.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
L’arte rotta (I)
L’arte rotta (II)
L’arte rotta (III)
L’arte rotta IV
L’arte rotta V
L’arte rotta VI
L’arte rotta VII
L’arte rotta VIII
L’arte rotta IX
L’arte rotta X
L’arte rotta XI
L’arte rotta XII
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