Il senso della comunità al tempo del virus. Dialogo con Marinella Senatore
Lorenza Fruci dialoga con Marinella Senatore sul senso di comunità pre e post Coronavirus. A partire dalla pratica dell’artista, fatta di dialogo, scambio e partecipazione.
Da quando è scoppiata l’emergenza sanitaria per il COVID-19 non si è potuto fare a meno di notare come i cambiamenti, che la diffusione del virus ci stava imponendo, stavano influenzando anche il nostro immaginario. Dalle prime chiusure dei musei fino a quelle di tutte le attività lavorative, con il conseguente divieto di uscire, le strade hanno iniziato a mostrarsi deserte. La nostra vita, assoggettata ai decreti del governo, che si stanno susseguendo come delle gocce cinesi, ha cominciato a svolgersi tutta all’interno delle mura domestiche. I balconi e le terrazze sono diventati prima spazi di espressione e poi i nuovi luoghi della socialità. Le nostre relazioni umane ci sono state imposte a distanza e distanziate. Il nostro senso di comunità è cambiato, così come quello di relazione tra esseri umani. Abbiamo imparato a usare (se non ad abusare) la parola “assembramento” e abbiamo capito che il suo significato è diverso da massa, gruppo, folla. Così come l’immagine che rappresenta. E nell’arco di qualche settimana, complice anche l’alta mortalità che il virus sta portando con sé, con l’aggravante della solitudine dei malati e dell’impossibilità di celebrarne il funerale, quasi tutti abbiamo imparato a muoverci nello spazio, anche quello casalingo, senza avvicinarci troppo. In maniera involontaria, la nostra quotidianità ha iniziato a produrre delle nuove rappresentazioni di noi e della nostra organizzazione sociale, che vanno in contrasto a quelle che sono state il frutto della nostra precedente vita.
Nei primi giorni di quarantena, in uno stato di poca decifrazione della situazione (quando ancora non si percepiva concretamente il pesante stato di lutto in cui stavamo andando), chi più chi meno abbiamo partecipato e assistito a canti e suonate dai balconi e dalle finestre delle nostre quarantene. Lo abbiamo fatto per mantenere vivo uno sguardo sul mondo, sentirci meno reclusi e per condividere uno dei pochi momenti di socialità che ci era permesso. E proprio in quei pomeriggi, mentre i miei occhi si riempivano di nuove immagini, mi sono tornate alla mente le foto di Palermo Procession, la performance urbana che Marinella Senatore (Cava de’ Tirreni, 1977) ha ideato per Manifesta 12 Palermo (2018), coinvolgendo la comunità cittadina.
In quella circostanza i palermitani si sono affacciati dai balconi per vedere lo sciame di persone protagoniste della parata, e quelle che vi si erano unite, prendendovi parte essi stessi. Le immagini delle strade piene di performer e gente in processione, così come quelle dei cittadini ai balconi, mi si sono sovrapposte a quelle dei primi giorni di quarantena, fatte di strade deserte e di terrazze in cui si guardava verso l’alto, piuttosto che verso il basso, cantando. “A me fa tristezza vedere le strade vuote, ma spero che quello che succedeva durante le parate possa succedere nelle case: ritrovarsi e ritrovare il senso di appartenenza”, è stato il commento di Senatore al mio racconto del ricordo della sua performance a Manifesta.
Da qui il desiderio di dialogare con lei intorno alle riflessioni che questo singolare momento della nostra storia le sta inducendo, soprattutto come artista. “Tutta questa situazione mi ha confermato quello che sostengo da anni, e cioè che la gente ha bisogno di sentirsi parte di una comunità”. Comunità infatti è una delle parole chiave intorno alle quali Senatore sviluppa il suo lavoro, basato sulla partecipazione pubblica di cui è un’attivatrice di processi.
DALLA PARTECIPAZIONE ALL’ISOLAMENTO
“Io non ho mai lavorato pensando che avrei cambiato le cose, ma piccoli episodi nella vita delle persone dove si formano comunità, anche temporanee ‒ che poi non è mai così perché continuano a stare insieme ‒, ponendo l’accento sul bisogno, che io ho sempre rilevato, di sentirsi parte di qualcosa perché c’è solitudine”. Quella stessa solitudine, spesso compagna delle nostre vite e nascosta nelle nostre relazioni, con cui, forzatamente, molti di noi hanno dovuto fare i conti durante questa quarantena, non avendo più escamotage per sfuggirvi.
“È esattamente quello che sta avvenendo, perché anche in Italia si è sempre pensato che tutto fosse basato sulla famiglia. Ma poi, quando sei solo in famiglia, ti rendi conto che c’è tutto un mondo fuori, di scambi, di relazioni, anche di protezioni, di cui avevi bisogno”, ha aggiunto Senatore. Proprio quel senso di comunità che ci è stato tolto e di cui si inizia a sentire la mancanza, che va a sommarsi all’esperienza del distanziamento sociale che stiamo facendo tutti, e che inevitabilmente ci induce delle riflessioni sulle nostre vite personali e professionali, creandoci anche dei condizionamenti psicologici inaspettati e del tutto imprevisti. “È ovvio che, in questa situazione, una che lavora come me, con una base partecipativa, si deve interrogare su tante cose, anche su come proseguire il proprio lavoro”, sul quale Senatore ha deciso di “rinvestigare” impiegando il tempo della sua quarantena.
“È come se oggi rivedessi i miei lavori e riuscissi a capirli molto più di prima. Ci vuole sempre la distanza. Io non sono una performing artist, io attivo un ambiente dato, che di solito è la strada, ma può essere altro, anche a distanza. Creo cortocircuiti che si innestano live con i corpi, sonori quando lavoro col suono, bidimensionali o tattili quando lavoro con le materie”.
Linguaggi e mezzi che, nel ripensare i progetti artistici del prossimo futuro, che dovranno tenere conto delle nuove condizioni date, Senatore non riprodurrà nella versione digitale perché “sarebbero dei surrogati, aiutati da una tecnologia che c’è sempre stata”.
E quindi, come sta influenzando la sua pratica artistica questa pandemia? “Ho deciso di utilizzare le mie piattaforme che sono sempre state online, già usate da persone, presenti da tempo nella mia pratica, e quindi non inerenti all’emergenza”. Qui affiora la verità della pratica dell’artista, capace di confermare la sua maternità e identità, declinandola nella forma e modulandone l’espressività, sempre tesa alla sintonia con i tempi e i contesti.
“Io lavoro con una componente partecipativa, fondamentale e cruciale, e studio tutte le forme con cui posso mandare avanti queste piattaforme, come il canale radio o il microfono open”.
IL PROGETTO ESTMAN RADIO
Si chiama Estman Radio ed è una radio podcast sul web aperta al pubblico, che rimanda alla lunga storia delle radio dei lavoratori delle fabbriche e delle radio libere italiane. Senatore l’ha creata nel 2011 e diventa live ogni volta che viene ospitata da musei o istituzioni.
“Al Palais De Tokyo di Parigi, per esempio, la gente aveva la possibilità di fare trasmissioni dal vivo. È una piattaforma dove, da anni, in silenzio chiedo di mandarmi un contributo audio. È sempre stata lì, ha sempre vissuto. Ho musica, sound artist, dibattiti, artisti che leggono storie. Ho ripreso dal mio archivio questa piattaforma, che stiamo integrando, e ora è di nuovo online”. Con la radio Senatore apre il varco verso l’affascinante mondo sonoro che, in questo momento, grazie alla sua incorporeità, può permettersi di riempire spazi creativi senza occuparli fisicamente. “Poi ci sono le mie soundtrack, cioè dei paesaggi sonori partecipativi di varie città e Paesi, come New York, Modica, Lione. Attraverso delle open call si chiede di registrare un suono o una voce, anche usando solo il cellulare. È un’idea che mi è venuta nella prima era del telefonino, quando ho cominciato a pensare che c’erano diversi gradi di partecipazione che le persone potevano offrire. Proprio in questi giorni sto implementando delle piattaforme dove non solo puoi ascoltare il risultato della tua partecipazione, ma puoi anche usare i suoni degli altri. È una specie di archivio sonoro. E probabilmente questo progetto lo realizzerò per la Biennale in Brasile”. Il riutilizzo, il potenziamento e l’attualizzazione di piattaforme preesistenti nella sua pratica sono la risposta di Senatore alle conseguenze delle restrizioni dovute alla diffusione del Coronavirus. Nei prossimi mesi continuerà ad attivare comunità, e a coinvolgerle nella partecipazione pubblica, attraverso questi strumenti, evitando il contatto fisico tra persone, ma mantenendone viva l’interazione. “E poi c’è anche un altro progetto, che ho già fatto nel 2018, che è la School of Narrative Dance online. Fu un progetto enorme sponsorizzato da Oviesse, commissionato dalla Peggy Guggenheim Foundation di Venezia, che in circa otto mesi coinvolse più di ottomila scuole d’Italia. Con un opuscolo che spiegava l’excursus della performance e dei video tutorial dei movimenti emancipativi di una coreografia di base, abbiamo dato appuntamento a tutti i bambini per una performance collettiva. È un progetto inclusivo che ho appena ripreso e che rifarò sicuramente. Queste sono le mie pratiche in questo momento”.
ARTE DAL “BASSO”
Senatore sta vivendo la sua quarantena a Roma, città che in questa circostanza ha riscoperto per la solidarietà. “Il mio sentire, a livello artistico, è che anche l’affettività, le relazioni di scambio tra le persone e le persone tutte (non quelle di un’élite delle arti o del mondo della cultura che ‒ ahimè! ‒ lo è ancora) esistono e sono il vero pubblico a cui ci dovremmo rivolgere. Quello che sto constatando (lo stiamo constatando tutti) è che non possiamo tenere fuori dalla proposta culturale le persone non addette ai lavori perché altrimenti l’arte morirà! Uno perché abbiamo sempre ignorato un pubblico enorme che, per esempio, la musica e il cinema non hanno ignorato. Due perché abbiamo addirittura detto di pratiche, come quella partecipativa, che non erano arte o erano arte effimera, mentre ora si riconosce che sono l’urgenza. Il problema enorme dell’arte contemporanea è che non è mai stata popolare. E c’è ancora chi pensa alla differenza tra cultura alta e bassa. Questa situazione ha messo in discussione questo status perché ha dimostrato che la cultura alta ha fallito completamente. Quello che sta sostenendo le persone e sta tenendo in piedi la società adesso è proprio la cultura ‒ cosiddetta ‒ bassa, come la canzone pop, il gioco, le chat fatte per i bambini, le tradizioni culinarie, la riscoperta del movimento. Se, dopo l’uscita da questa tragedia, continueremo come prima, l’arte non avrà più senso per la gente. Se la cultura non è utile alle persone ‒ non che cambi il mondo, ma utile ‒, per me non ha proprio senso”.
Rimettere le persone al centro dell’arte, della cultura e della politica tutta sembra essere la conclusione a cui la maggior parte di intellettuali, artisti e operatori culturali sono giunti. E il fulcro del dibattito ora è sugli scenari futuri che ci vedranno protagonisti.
“La mia grandissima paura è che, quando usciremo da questa situazione di emergenza, tornerà tutto come prima. Questo è il mio più grande incubo. Vorrei invece che operatori, come quelli della cultura, potessero tenere viva l’attenzione sul ruolo e il lavoro degli artisti che sono la pietra delle istituzioni. In questo momento in cui siamo fermi, ci si dovrebbe interrogare su come, per esempio, vanno sostenuti gli artisti che sono una categoria di lavoratori come tutti gli altri”.
E chissà che questa istanza, in un momento di tale eccezionalità, non possa provenire proprio dal pubblico, a cui l’arte partecipativa si rivolge, mosso dalla sofferenza per la mancanza di socialità, di relazione con l’altro e di collettività? Chissà se stavolta il bisogno di stare insieme, invece di essere attivato, potrà nascere spontaneamente dal basso? Utopia o speranza di vedere il dispiegarsi di un immaginario nuovo.
‒ Lorenza Fruci
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