Giovani artisti e quarantena. Parola a g. olmo stuppia

Su cosa stanno lavorando da casa i giovani artisti in questi giorni? Da Milano ha risposto g. olmo stuppia.

Dopo le riflessioni di Santa Nastro dedicate agli artisti italiani e il contributo ancora più netto di Alessandra Mammì, pubblicato qualche giorno fa sempre su Artribune, emerge con forza nel dibattito di queste settimane la voglia di un cambiamento, di un “sacro egoismo”, di un’azione condivisa che riporti al centro del sistema nazionale prima e di quello internazionale poi, l’arte italiana. In questo caso il tempo è dalla nostra parte poiché, a giudicare dagli interventi dei protagonisti del mondo dell’arte, sembra che la ripartenza culturale e programmatica di musei, istituzioni e gallerie sia già in atto.
Staremo a vedere se dal prossimo anno, o anche prima, riusciremo a riscoprire l’interesse e il fascino di una generazione di artisti, che non sia solo quella dei soliti noti, ma soprattutto quella dei trentenni che silenziosamente continua a lavorare ed essere riconosciuta. Tra i vari esempi ricordiamo l’artista americano Namsal Siedlecki (Greenfield, 1986), vincitore della ventesima edizione del Premio Cairo, e Renato Leotta (Torino, 1982), che ha inaugurato in un museo pubblico come il Castello di Rivoli la sua prima mostra personale.

UN ARCHIVIO DEL PRESENTE NELLE PAROLE DI G.OLMO STUPPIA

In una telefonata fiume con g. olmo stuppia (Milano, 1991) l’artista ha dichiarato:
Alle tue domande, posso rispondere solo con una sorta di libero flusso di coscienza. Per noi mammiferi bipedi è ormai acclarato che le ‘fabbriche diffuse’ (allevamenti intensivi, agricoltura chimica, brand life, eventistica del consumo) rappresentano un cancro per la terra che ci ha generato. ‘Ancestrali’ tracce delle esplosioni nucleari in alta atmosfera degli Anni Sessanta, si rintracciano anche nel ghiacciaio dei Forni in Italia. Tracce di radioattività sopra lo scuro sedimento di crioconite glaciale, caro Giuseppe. 
Nello specifico italiano, in questo periodo ai domiciliari (in attesa dell’INPS…), trovo vomitevole l’uso dei mezzi di riproduzione digitale per ottundere ulteriormente le menti dei già traballanti “giovani (artisti)”. L’uso spasmodico della socialità ubiquitaria ‒ ovvero della droga da schermo ‒ rappresenta ai miei occhi, più che arte, l’assenza di profondità nel crearla. L’identità è un fatto psichico. L’arte pure. Il troppo lavoro genera devianze sociali. La ‘psico-apatia’ è spinta dai modelli di consumo progettati dalle strutture del potere. Sovrastimolazione e abbassamento psichico tra i giovani sono normativizzati. Ne conseguono danni macroscopici. È una ‘civiltà’ che scolpisce il suo sepolcro. 
Io amo la tecnologia digitale, ma essa va analizzata e la sua sorgente metabolizzata: il capitalismo finanziario non è uno scherzo: è una guerra sistematica contro i poveri. Ogni instagrammata inquina anche l’aria che respiriamo, ricordiamocelo. Produce CO2. Come pure “l’estrattività” di carni bovine in Lombardia-Veneto o di Coltan in Congo. È un gioco di sguardi che non si concede il tempo. Ritengo che non si voglia più curarsi del mistero, del fare arte a prescindere dal suo esito. Dal canto mio, cerco ‒ con mille contraddizioni ‒ di creare immagini su questo. Su ciò che non si dice. Sia con ‘Cassata Drone Expanded Archive’ che con il nuovo progetto ‘Milano con Destrezza’. Ho sempre fatto arte adoperando ogni forma mediale, dal disegno alla realtà virtuale, dalla performance alla radio, dalla scultura alla fotografia, dal relazionale alla performance. Tra una cosa e l’altra, mentre faccio dell’altro, saltano fuori le ‘meglio’ idee”.

g. olmo stuppia, Avui Alemanya ha declarat la guerra a Rússia, a la tarda aniré a classe de natació, foto Isavel Barios Ibars, Barcellona, 2013

g. olmo stuppia, Avui Alemanya ha declarat la guerra a Rússia, a la tarda aniré a classe de natació, foto Isavel Barios Ibars, Barcellona, 2013

Mi dicevi dell’Italia.
L’uso comune della parola “giovane” non è sempre esistito per come lo si intende oggi. In Italia il concetto di “giovane” nasce attraverso lo spirito del tempo fascista applicato alla “Coscienza Italiana”. Inconscio collettivo ancora oggi profondamente influenzato dalle architetture, dalle pigrizie e dall’asservimento fascistoide-clientelare. Asservimento nella forma mentis, che, dopo la Resistenza, si è ripreso placidamente le istituzioni. La sua riproduzione si è estesa a macchia d’olio per poi divenire regola globale col post-human e l’operazione mediatica del 9/11. Gli artisti hanno davvero voce solo se decorativi o funzionali a una narrativa di potere, sia esso lefty o conservatore: è un medioevo digitale. La competizione è durissima.
Avere una voce rilevante come artisti? Oggigiorno è pura questione di classi sociali – siamo tornati ai servi della gleba digitali ‒ chi può stare a fare “arte” nei centri di potere (Londra, Hong Kong, New York, Parigi) avrà speranze di occupare momentaneamente la kermesse per poi agonizzare nel non nulla del “flow” con qualche sporadico rantolo qua e là.
Osservare come da “Cultura Italiana riconosciuta nel mondo” si sia passati al refashion dell’arte, ovverosia il convertire tutto in parametri di produttivismo privo di qualità, era prevedibile, la Milano post-expo del “lavoro gratis perché fa cv” ne è l’epicentro; una conversione della cultura in un circuito della ricompensa immediata genera nevrosi di massa. La ricompensa “sexy” e “shiny” dei like o del soddisfacimento dei parametri burocratici dei bandi è ancor più drammatico. Ma ci siamo dentro e dobbiamo sbilanciarci dalle interiora umide della macchina per cambiarne l’albero motore. C’è troppa luce e poco silenzio. Siamo consumati e inebriati dalla continua replica del viso, dei format. Avvitati in quella che Nicholas Mirzoeff chiama “performance digitale” del selfie.

E il ruolo dei privati?
In Italia molto fanno i privati e le fondazioni bancarie, ma a che prezzo? Le fondazioni (a quando una riforma della legge Amato 30 luglio 1990, n. 218?) possono pulire quei quattro spicci che avanzano dalla grande accumulazione e risultare “trendy”, “aiutare il talento” gratis; anzi capitalizzeranno facendolo pagare per esistere quel talento. La catastrofe del non senso, dell’incompetenza manageriale dei “figli di” eletta a regola prima. Spesso le fondazioni sono gestite come Venezia. Una laguna da spolpare. E i primi responsabili sono gli artisti. Ve la ricordate Venezia? Beh prenotate ora una visita col Flixbus.  Da qui a trent’anni potrebbe dissolversi tra onde tropicali e tsunami con buona pace dei 5,8 miliardi di euro rubati all’erario dalle grandi ditte costruttrici del MOSE e dai loro referenti nella burocrazia regionale e statale. E non è con progetti e piattaforme online che si modifica l’assetto dominante ma con comportamenti che facciano dell’arte una forma di vita totale. Una preghiera. Una ricerca della critica del fare, dell’immaginare, della sensibilità. Una ricodifica transmediale dell’amore. Una voglia di riordinare lo spazio in un senso femmineo. Un’alchimia che balla al ritmo di Heddy Huntington sul brano U.S.S.R. 

g. olmo stuppia, Oh Shit, Milano con Destrezza, 85x110cm, c print, 2020

g. olmo stuppia, Oh Shit, Milano con Destrezza, 85x110cm, c print, 2020

Tu da cosa ripartiresti?
Riprogrammare i musei? Io chiuderei metà delle Accademie di Belle Arti e dei musei di questo Paese. Servono poche scuole “quasi” gratis in stile francese, non diplomifici. Serve selezione e attenzione. Non “manager” incompetenti a capo di istituzioni sia mediche che culturali per elezione partitica.
Il patrimonio antico e moderno esiste se ripensato, non mummificato nelle bare museali in mano a dinosauri e alle cooperative del lavoro precario. Più biblioteche aperte 24 ore su 24 con piccoli spazi espositivi annessi, sgravi fiscali veri per chi promuove le arti e premi acquisizione regione per regione con giurie esclusivamente internazionali. L’Italia aveva un ruolo pilota per la cultura internazionale. Ora è fanalino di coda. Ma possiamo rialzarci.  Dobbiamo ritornare al movimento, a danzare. A bruciare.

In che modo?
Serve una rete solida della cura e del pensiero di cui l’Italia ha tradizione e “madri” nobili. Basti pensare da Lonzi a Muraro, da Liliana Cavani a Elio Petri, da Dario Bellezza a Silvano Agosti, dalla Biennale alle realtà indipendenti. Dalla Quadriennale che ha inventato Q-Rated e Q-International alle scelte coraggiose di pochissimi amministratori e curatori.
Occorrono sforzi coordinati. Denari per programmi cinquantennali basati sulla ricerca (anche non artistica), non sulla oggettificazione sciatta di manufatti spesso di dubbio valore per un mercato che “non esiste” perché non istruito alla materia. Collezioni pubbliche che investano sulle generazioni di artisti, non sperpero di denaro a caso e aziendalizzazione coatta del pensiero. Prendersi dei rischi deve tornare a essere opera sia pubblica sia degli artisti. Servirebbe ripensare le lingue italiane, le diversità culturali come tematica. Servono visione critica, diversificazione e soprattutto soldini per pagare il lavoro intellettuale.
Dove trovarli? Beh ad esempio ritirando le truppe dai teatri esteri? Tassando le materie plastiche, l’agricoltura chimica e i cibi nocivi? A loro andrebbe imposta la quarantena non a noi chiusi in case di 35 metri quadrati. Le energie ci sono, l’Italia ribolle di grumi talentuosi, ma la controparte istituzionale che fa? Aspetta che la crioconite glaciale si dissolva.

Quali sono i tuoi ultimi progetti?
Sono impegnato in un disegno concettuale. Provo e fallisco, provo e fallisco ancora cercando di ridisegnare Milano con Destrezza (MCD). MCD è un progetto in fieri, nato grazie alla residenza appena trascorsa a Viafarini. La riorganizzazione di MCD avviene a 240 chilometri a est. A Venezia, la mia città adottiva dove, grazie al cielo, non sono solo ma stretto in dolce compagnia. Qui “vago” a correre. Una mistura tra deriva situazionista e corsa.
Milano con Destrezza è un gesto, un’accrochage visivo che tenta di dar voce a gesti e vite non ancora del tutto fedeli all’egemonia della narrativa del “vincente”. MCD è un atlante di immagini sulla via Arquà e sui suoi abitanti. Una distonia dentro la pancia di una Milano sempre più divisiva che sta vivendo il collasso culturale ‒ dovuto alle picconate del fashion rebranding e dell’impoverimento linguistico ‒ più grave degli ultimi decenni. Cultura non è farsi i selfie al Bar Luce o agli opening. Forse il virus sarà benefico in questo senso. Lo spero per la mia città natale.

g. olmo stuppia, Archeologié du Futur, CDEA, INHA, Parigi, 2019

g. olmo stuppia, Archeologié du Futur, CDEA, INHA, Parigi, 2019

Su cosa si concentra Milano con Destrezza?
Con MCD ho scelto di focalizzarmi sulla “bellezza” del furto con destrezza e sulle case di ringhiera come modello sociale. Il luogo in cui sono nato in casa. Una vita felice a metà con la Sicilia, una via di poveri dove ho vissuto da bambino “privilegiato” tra i morti di fame di tutto il mondo, e da “povero” tra i ricchi della scuola Steiner. Gioiosamente, collettivamente, individualisticamente. In Via Arquà 16 a Milano. Una “via-immagine” di una certa socialità milanese che sta sparendo. Ho perciò deciso di rimappare, aggiornando video, materiali, portando artisti, curatori, amici e performer per prendere appunti su una pagina dedicata: www.golmostuppia.it/milano. Ne usciranno diverse sculture, video, performance e un progetto utopico (e condiviso con il quartiere) per la sua pedonalizzazione entro il 2022. Ma c’è dell’altro. Rinvengo materiale come un rivolo di sangue sgorga da una ferita. Immagini danzanti come plasma che suturino il tempo.

Cosa raccontano queste immagini?
Con lieve asincronia sto rovistando in archivio (o meglio dire mare magnum?); te ne regalo dei frammenti, caro Giuseppe: lo still da video è a Venezia. Un acquario con dei pesci pulitori. Il vetro inframmezzato da una saracinesca. I vetri a cui attaccarsi, in un prigione luccicante.
La seconda immagine racconta di una soluzione “fai da te” per appendere gli indumenti ad asciugare in Via Arquà. Fa parte dell’atlante in fieri di Milano con Destrezza.
I poster, affissi sopra le pubblicità di moda a Bourse, in occasione di Archéologié du Futur, raffigurano la testa mozzata di una statua della libertà che ho portato nella performance all’INHA: l’immagine virata al blu e al rosso della testa di cemento riporta la scritta in arabo “13 milioni di km quadrati” (che è fu la vastità dell’impero francese durante il suo apogeo).
L’immagine da rasato a lametta Gillette ricorda Drone limitrofo revised, una performance in cui ho calcato le vesti di un ipotetico “prete nazipunk” relativa al 2014. L’ho rintracciata negli archivi della Venice Performance Week. In quell’occasione ‒ invitato da Andrea Pagnes ‒ celebrai il funerale di un drone ucciso in una fantomatica guerra per la “sicurezza” all’interno della stanza di Joseph Beuys, estetica trash e immagini di San Giuseppe da Copertino, santo dei voli. Una tag drone limitrofo rip campeggiava a spray rosa in Strada Nova, dinanzi all’ingresso del sontuoso Palazzo Mora, facendo incazzare i “fioi” di We-Exhibit che ringrazio per l’indulgenza.
Con un occhiale da sole Anni Settanta, una maglione trovato a terra, una spilla futurista, “vagando” ancora per porre tutte le ambiguità dell’incedere, eccomi così a radermi a metà l’intero corpo, unghie comprese. Una scultura camminante in cui mi trasformai aiutato dagli intimi amici Gerardo Brentari e Iacopo Bonomo. A ridere, a Barcellona. Vivendo in un ex negozio di scarpe, appeso come un pipistrello nell’oscurità. 7 anni fa. Mentre tra i fasti della catastrofe, altri sogni volteggiano felici sopra lo (o)scuro sedimento di crioconite.

Giuseppe Amedeo Arnesano

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Giuseppe Arnesano

Giuseppe Arnesano

Storico dell'arte e curatore indipendente. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali all'Università del Salento e in Storia dell'Arte Moderna presso l'Università La Sapienza di Roma. Ha conseguito un master universitario di I livello alla LUISS Master of Art di Roma.…

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