L’artista e il cambiamento sociale. Quando alla politica occorre visione

Il Ministero dei Beni Culturali lancia un concorso per giovani fotografi, cheidendo loro di immortalare le città durante il lockdown. Niente soldi però, né un progetto ben articolato. Ancora un’occasione per riflettere su un’idea di Paese che non prescinda dalla ricerca creativa e intellettuale. A corredo alcune immagini di Francesco Faraci, Teresa Imbriani, Fabrizio Intonti e Max Intrisano raccontano Palermo, Bari, Roma nei giorni del Coronavirus.

Raccontare le città vuote, nei giorni sospesi e ostili della pandemia.  Il distanziamento sociale, le piazze deserte, le strade popolate di fantasmi e le memorie sparse ovunque, disperse, coltivate tra la quiete e la nevrosi delle mura di casa. Nell’ossessione igienica di oggi, la normalità di ieri – chiassosa, fisica, promiscua – pare già l’inferno, oppure l’eldorado. Che siano metropoli o piccoli centri, scorci storici monumentali o vedute pittoresche di una vita di provincia più placida che mai, c’è in queste istantanee aliene una chiave per rileggere – adesso, ma soprattutto domani, quando ne saremo fuori – la condizione emotiva, psicologica, esistenziale, vissuta nei giorni del Covid-19.

Fabrizio Intonti, Trinità dei Monti nei giorni della quarantena, Roma 2020

Fabrizio Intonti, Trinità dei Monti nei giorni della quarantena, Roma 2020

GIOVANI FOTOGRAFI PER IL MIBACT

E in tanti, tra artisti e fotografi, stanno lavorando per restituire una forma a quest’informe buco spaziotemporale in cui il virus ha precipitato il mondo intero. Non si contano gli scatti, i lavori su carta o su tela, i video, i testi, e ancora fumetti, opere sonore, performance e progetti relazionali pensati per il web, esperimenti creativi a misura di social. A tornare, con insistenza, sono proprio loro: le città. Come mai le avevamo viste in pieno giorno, nell’immobilità e nella quiete che appartengono alla notte o a certe domeniche d’estate. Da qui arriva l’idea del Mibact. Se gli artisti fotografano le città paralizzate dalla pandemia, il Ministero – tramite la Direzione Generale Creatività Contemporanea – lancia una open call e si mette sulle tracce dei 20 scatti migliori, realizzati da autori under 40: saranno queste 20 immagini a raccontare, ufficialmente, l’Italia al tempo del Coronavirus.
Il concorso si chiama “Refocus” e – recita il testo del bando – “si pone il duplice obiettivo di recepire e valorizzare la visione del territorio italiano (nella scena urbana ed extra-urbana) da parte di giovani fotografi, che sarebbe rimasta a sua volta locked-down per troppo tempo”. Un progetto che “solleva l’attenzione sulla ‘rimessa a fuoco’ della realtà, in seguito agli effetti che il confinamento ha avuto sulle coordinate spazio-temporali del vivere quotidiano e come questo abbia indirettamente trasformato la percezione della realtà stessa”. Senza dimenticare l’importanza della famosa ‘vetrina istituzionale’, che darà lustro alle opere scelte – pubblicate sui canali social e sul sito del Ministero – considerando che tanti lavori degni di nota “in un momento di difficoltà e di isolamento sociale così straordinari, vedono bruscamente ridotte le occasioni di essere valorizzati”.

Francesco Faraci, Palermo ai tempi del Coronavirus, 2020

Francesco Faraci, Palermo ai tempi del Coronavirus, 2020

Ma c’è di più. Oltre alla promozione on line, la DGCC “si riserva inoltre di potere allestire successivamente una mostra dei lavori selezionati in una sede espositiva”. Forse, se capita, la mostra ci potrebbe pure scappare. Nemmeno per sbaglio viene presa in considerazione, al di là del compitino sul tema del momento, l’ipotesi di un riconoscimento in denaro, di una progettualità ampia e di larga portata, di un contributo per una fellowship da spendere – dopo l’emergenza – in un centro di ricerca, in un museo internazionale. Non un impianto progettuale forte, non un investimento per la produzione, non una commissione scientifica di livello (ancora non si conoscono nemmeno i nomi di chi giudicherà).
Nessun segnale concreto, insomma, che possa tradurre una consapevolezza minima del bisogno che c’è – e che c’è sempre stato– di dare forza, supporto, dignità e ruolo a una categoria tanto centrale nel sistema dell’arte (la categoria, senza la quale non avremmo di che discutere), quanto marginale nella declinazione effettiva che il sistema assume, tra politiche culturali e ordinamento sociale. Siamo ancora dinanzi a un Ministero che offre agli artisti piccoli e relativi spazi temporanei di ribalta, manco fosse l’ennesimo talent in cerca di promesse per la solita fiera, vetrina, pubblicazione. E la petizione contro il concorso, prevedibilmente, non si è fatta aspettare: al momento oltre un migliaio di firme, per chiedere di sospendere l’iniziativa in quanto priva di budget, di fee per gli autori e di supporto editoriale/curatoriale.

Max Intrisano, 'Io fotografo da casa Day 57', scatti dalla finestra nei giorni del lockdown, Roma 2020

Max Intrisano, ‘Io fotografo da casa Day 57’, scatti dalla finestra nei giorni del lockdown, Roma 2020

UNA CATEGORIA FRAGILE, IN UN SISTEMA IN DIFFICOLTÀ

E dire che poteva essere una minima, simbolica occasione per indicare una direzione, una volontà. Proprio ora, nel cuore della crisi, nell’ansia di una catastrofe economica che avanza, lo Stato chiede agli artisti di raccontare luoghi, ritmi, dettagli di una quotidianità alterata, colma di inquietudine; e mentre chiede dimentica che quegli stessi artisti, giusto a causa della crisi, non hanno più un orizzonte di lavoro da tracciare, non intravedono aperture, non sanno da quale riserva attingere nell’immediato.
Il sistema è fermo e l’anello primo della catena, ovvero coloro che l’arte la fanno e la mettono in scena, è l’ultimo a potersi inventare una strada, tra gallerie al palo, collezionisti che fanno i conti con aziende in sofferenza e risparmi da preservare, senza considerare i musei chiusi da due mesi, teoricamente sul punto di riaprire ma senza mostre all’orizzonte, con una previsione d’ingressi vicina alla débâclee e una probabile diminuzione dei fondi regionali o comunali: musei, dunque, che al momento non sono in grado di offrire incarichi e di prospettare nuove produzioni.
Una categoria, quella degli artisti – e il riferimento non è certo alle poche “star” baciate dalla fortuna di un art system a favore – che sta in cima alla classifica delle “fragilità”; categoria abituata a vivere di altre mille occupazioni per tenere in piedi la propria professione-vocazione, costretta a fare i conti con un mercato elitario oppure dozzinale, opaco, qualche volta perverso, facendosi andar bene certe cattive abitudini mai estirpate: lavori in nero, lavori non pagati, assenza di contratti, di ammortizzatori sociali, di una minima regolamentazione.
Gli artisti, dunque. Figure mitologiche, che – in una concezione dell’arte come status symbol o passatempo per ricchi conservatori – sembrano esistere nell’iperuranio di un romanticismo residuo, finito per mischiarsi con uno spietato agonismo da manager-pierre. E di che campano, quanti possono permettersi uno studio, quanti finiscono nel solco di illusorie parabole ascendenti, e poi che fine fanno quando l’hype scema, ma soprattutto quanti riescono a coltivare un po’ di ricerca vera, sincera, coraggiosa, svincolata dai diktat del gusto imperante, dal tema della sopravvivenza, dalle esigenze di velocità e di vendibilità: domande che non agitano i sonni di nessuno.

Max Intrisano, 'Io fotografo da casa Day 55', scatti dalla finestra nei giorni del lockdown, Roma 2020

Max Intrisano, ‘Io fotografo da casa Day 55’, scatti dalla finestra nei giorni del lockdown, Roma 2020

LA PRESENZA DELLO STATO

Gli artisti, ancora. Non da preservare come specie in estinzione, ma da mettere nelle condizioni minime di misurarsi con la sfida gigantesca dell’arte e della storia. Ed è qui che la faccenda passa nelle loro mani: in termini di consapevolezza, di impegno, di autenticità del lavoro. E intanto il mercato, e intanto le fiere, e intanto le gallerie (sfinite dall’ostilità del fisco e a volte finite con l’accontentarsi, tra facile trendismo, appiattimento o esterofilia). E intanto lo Stato. Che non ha compreso quale sia la via migliore. E vale per gli artisti, per i poeti, come pure – ma sarebbe un altro capitolo da aprire – per i critici, gli studiosi, i curatori. Sostegno poco o niente; cognizione del loro ruolo potenziale, pressoché nessuna.
Il tema che dovrebbe tornare, tuonante, imperativo, categorico, è quello delle committenze. In Italia, quasi, non ve n’è traccia. Può trattarsi di una poderosa manovra di investimenti nazionali, come quella recentemente invocata da Hans Ulrich Obrist, collegandosi alla stagione del New Deal e al fiorire di produzioni artistiche che l’America di Roosevelt foraggiò, negli anni successivi alla Grande Depressione, ricostituendo un tessuto socio-culturale ed economico intorno alla potenza dell’arte, al regime di visibilità e alla dimensione politica delle opere, a una serie di specifiche figure (dagli artisti stessi alla critica militante, passando dai collezionisti) e a un nuovo mercato che si riusciva a intravedere; ed è anche il caso, in quest’ottica, di importanti operazioni d’arte pubblica, ripensando gli spazi comuni a partire da opere permanenti o temporanee, strumenti di ricerca e di memoria, di trasformazione e di cura dei territori, in sinergia con quegli investitori privati per i quali ha senso esserci nei luoghi di massima trasparenza e risignificazione sociale (piazze, parchi, strade).
O ancora, sono reti possibili di sostegno a dimensione regionale, come suggerito su questa testata in un brillante articolo di Sylvain Bellenger e Sergio Risaliti, riagganciandosi alla felice tradizione di quei FRAC (Fonds Regionaux d’Art Contemporain) che alla Francia – di nuovo mettendo insieme strutture pubbliche e risorse private – hanno consentito di costruire collezioni museali diffuse, ma anche di sostenere gli artisti e i loro progetti di produzione; o potrebbe essere, in scala più ridotta, il contributo degli stessi Comuni, chiamati a costruire spazi d’accoglienza, di lavoro, di transito e di produzione per artisti stranieri e locali (atelier, laboratori, residenze), promuovendo nelle città rivitalizzazione creativa e attitudine internazionale. In tutti questi casi il ruolo dello Stato è strategico, centrale.

Teresa Imbriani, Nebbia e coronavirus #1, 2020, courtesy of the artist

Teresa Imbriani, Nebbia e coronavirus #1, 2020, courtesy of the artist

QUALITÀ E RICERCA, DALL’ARTE AL TESSUTO SOCIALE

Quando tutto questo manca, la sfida per la sopravvivenza e il rinnovamento è più ardua. Del processo di detrimento, imborghesimento e infiacchimento del sistema dell’arte – le cui responsabilità sono distribuite tra tutti gli attori in scena, artisti inclusi – fa le spese il fattore per eccellenza, imprescindibile affinché qualcosa resti, nell’indistinto novero di opere, di sguardi, di tentativi accumulatisi nel presente: la ricerca, la qualità, il lavoro intellettuale. E hai voglia a discutere di nuovi format espositivi, di innovazione digitale, di un’idea differente di museo, quando a perdersi è la prima, fondamentale condizione: costruire buone mostre, tirare fuori opere potenti, rimettere in circolazione un pensiero complesso, incisivo, indipendente. Tutti fattori che conservano la capacità di innescare processi profondi, tra sollecitazione estetica ed emotiva, prefigurazione poetica del futuro, meditazione sulla sostanza del visibile e del reale (in relazione all’invisibile e al virtuale), e ancora consapevolezza civile, ribaltamento dei linguaggi e delle prospettive: materia prima preziosa, nel lento e mai concluso percorso di edificazione di un Paese. Quello che siamo, in termini di maturità e di preparazione rispetto alle questioni chiave e alle crisi odierne, dipende da quanto si è investito in favore delle intelligenze e delle sensibilità collettive.
Le risorse sono poche, sì, ed è arduo orientarsi nella selva di artisti, sedicenti tali, ex artisti, artisti residuali, artisti emergenti o decaduti, invisibili ma straordinari, visibilissimi ma completamente inessenziali… E allora, posto che poi il famoso filtro lo fa la storia, non senza dimenticanze ed errori, è nel magma simultaneo della contemporaneità che qualcuno deve assumersi la responsabilità del lavoro sporco, sostenendo chi ci prova, scommettendo su questo o quello, scegliendo, imbastendo poche azioni necessarie, esercitando uno sguardo critico fondamentale. Tutto l’ovvio, il retorico e il banale – la cosiddetta ‘fuffa’ dell’arte – in qualche maniera si consumerà da sé, incagliandosi prima o poi tra le maglie di uno pseudo sistema da fiction, da coolness, da copertina.
Un ruolo, quello di selezione, valorizzazione, storicizzazione, che i musei esercitavano e che hanno perduto per strada, in favore di una logica dell’evento dal respiro corto, scollatisi via via dal milieu creativo e intellettuale di riferimento, col suo tasso di rischio e le sue energie migliori (basterebbe chiedersi quanti direttori frequentano regolarmente gli studi degli artisti, dai maestri agli emergenti: pochi, e il dato preoccupante è che lo fanno sempre meno anche i critici e i curatori). E torna lo Stato, di nuovo, che in un dialogo forte con il sistema specifico di professionalità e di competenze avrebbe di che investire, di che scommettere, di che rilanciare. Nei momenti di naufragio, soprattutto.

Francesco Faraci, Palermo ai tempi del Coronavirus, 2020

Francesco Faraci, Palermo ai tempi del Coronavirus, 2020

IL RUOLO DELL’ARTISTA

Alla base di tutta questa storia c’è un’altra faccenda, tanto vecchia quanto cruciale. Esiste ancora un ruolo per l’artista, nell’assetto di un Occidente iper accelerato, mandato in frantumi dal vortice della postmodernità, quindi dalle crisi politiche ed economiche, infine dal generico disorientamento culturale? Che posto ha e pretende, un artista, nel tessuto non più ideologico di una società globalizzata, polverizzata, stritolata tra processi di massificazione informatica e dinamiche di contaminazione estrema? Escludendo l’idea di un’arte e una poesia che siano decorazione e indugio estetizzante, come pure militanza politico-sociale nella forma più edulcorata e di maniera, non dovrebbe mancare – negli artisti stessi, nella società e nelle Istituzioni – la consapevolezza di quanto peso abbia (o potrebbe avere) l’arte nei processi di rilettura e rifondazione del reale. È il caso dei grandi nomi, certamente, il cui lavoro è però sempre preparato ed affiancato dal lavoro di un esercito di minori, anche talentuosi, che per mille motivi la storia non celebrerà.
Parliamo di un’incisività lenta, sotterranea, a livello delle immagini, dei codici, delle narrazioni, delle sfide tecnologiche, della meditazione sui grandi temi contingenti o universali. Un bagaglio che resta fondamento, nutrimento, ossigeno sociale: gli artisti, da sempre, sono stati detonatori, intercettatori dei mutamenti in corso, produttori di immaginari.

Foto nei giorni della pandemia. Teresa Imbriani, Sentirsi così, Bari 2020

Foto nei giorni della pandemia. Teresa Imbriani, Sentirsi così, Bari 2020

La scommessa è a lungo termine: immettere contenuti ed energia intellettuale in quel tessuto da rivitalizzare. A farsene carico non può che essere una classe dirigente dotata di visione, disposta a seminare affinché a raccogliere siano, inevitabilmente, le generazioni future. L’artista torni dunque – rivendicandolo egli stesso – a dialogare con la politica, ad avere un ruolo nella progettazione degli spazi urbani; possa offrire nuovi spunti e prospettive alle imprese, ripensi per i musei la comunicazione e i percorsi di valorizzazione; e sia soggetto attivo nei momenti di riflessione teorica e di confronto democratico, che si tratti di nuovi media, di ambiente, di migrazioni, di periferie metropolitane: sia la parte scomoda, inattesa, divergente, generativa. L’artista – e dunque la ricerca, e dunque l’opera – torni a essere fulcro dell’economia della cultura e interlocutore necessario nel dibattito politico-sociale. C’è un principio d’utopia in questa prospettiva, utile a spingere un po’ più in là, all’infinito, il piano dell’immanenza: tensione inesausta, provando ad attualizzare l’idea rivoluzionaria nella misura concreta della storia.

– Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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