Arte, opera e contraddizioni
L’arte non sempre concilia soggetto e oggetto, ma diventa innesco per far esplodere una serie di contraddizioni. Marcello Faletra mette in evidenza questo aspetto a partire da una mostra di Barnett Newman e dalle considerazioni di Franz Kline.
Il pittore Franz Kline e la moglie di de Kooning – Elaine – si trovavano al Cedar Bar, luogo d’incontro degli artisti newyorchesi, quando improvvisamente li avvicina un collezionista. Era appena uscito dalla prima personale di Barnett Newman alla Betty Parsons Gallery (1950) e rivolgendosi a loro dice: “Dove vuole arrivare il ‘Minimalismo’, credete che se ne uscirà così?”. “Niente?”, chiede sorpreso Kline con un grande sorriso. “Quante tele c’erano?”. “Oh, dieci o dodici, forse, ma tutte esattamente simili, con una sola banda in mezzo e basta!”. “Tutte della stessa misura?”, chiede Kline. “Oh, no; c’erano misure differenti, da uno a due metri circa”. “Ah bene, da uno a due metri, e tutte dello stesso colore?”, domanda Kline. “No, no, c’erano colori differenti, rosso, giallo, verde… ma ogni quadro era uniforme, vede, degno di un imbianchino, e con una banda in mezzo”. Kline, non soddisfatto delle risposte, incalza: “Tutte le bande erano dello stesso colore? Tutte della stessa larghezza?”. “No”. L’uomo cominciò a rifletterci su. “Vediamo un po’… No. Non credo. Alcune bande erano larghe due centimetri, altre dieci, altre tra le due misure”. E Kline: “E tutti i quadri erano messi in altezza?”. “Oh, no; alcuni erano in orizzontale”. “Con delle bande verticali?”, insiste Kline. “Eh, no… Credo che ci fossero alcune bande orizzontali”. Kline non molla più il suo interlocutore e lo incalza: “E le bande erano più scure o più chiare del fondo?”. “Credo che fossero più scure”, risponde il collezionista, “ma ce n’era una bianca o forse più di una…”. “E questa banda era dipinta sul fondo o il fondo era dipinto attorno alla banda?”. A questo punto il collezionista cominciò a essere un po’ a disagio. “Non so”, concluse Kline liquidandolo, “ma tutto ciò mi sembra diabolicamente complicato”.
“La presunzione di avere in pugno il “significato” di un’opera è dello stesso tipo del consumatore di feticci, che apprezza l’arte solo a condizione di vederla come merce”.
Questo episodio è rivelatore del fatto che l’arte, nelle sue soluzioni più estreme, esige dallo spettatore un mutamento di coscienza: non sempre l’arte concilia soggetto e oggetto, ponendosi come loro sintesi, ma fa esplodere le contraddizioni interne al rapporto fra individuo e società. Newman, in piena saturazione urbana (New York), ricrea l’equivalente del deserto, che non ha significato, esiste senza supplemento di senso. E il deserto ha ispirato i grandi mistici. Il collezionista è disorientato nell’anti-estetica dell’oggetto (ad esempio, l’arte del bronzo non implica che l’arte sia bronzo). La presunzione di avere in pugno il “significato” di un’opera è dello stesso tipo del consumatore di feticci, che apprezza l’arte solo a condizione di vederla come merce.
L’alterità dell’arte gli sfugge e vacilla quando essa si sottrae all’imperativo della comunicazione. Contro la saturazione estetica, Newman sceglie un vuoto incomparabile. Come il rettangolo nero di Anish Kapoor al Madre di Napoli, di cui non si riesce a percepire il fondo. E suggerisce che in ogni individuo c’è qualcosa che non è scambiabile nel linguaggio, perché è inalienabile e per ciò intrattabile.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #54
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