Foyer Gallery, la galleria fatta in casa da un’artista italiana a New York
Si chiama Marina Sagona ed è un’artista italiana di stanza a New York. Durante i giorni del lockdown ha trasformato la propria casa in una galleria, allestendo mostre personali e presentandole via Instagram. Qui ci ha raccontato la sua esperienza.
A New York, come in molte città del mondo, le gallerie d’arte sono chiuse da mesi. Eppure, nell’Upper East Side di Manhattan, ce n’è una che ha aperto il 2 aprile e che è già alla sua seconda mostra. L’ha creata l’artista italiana Marina Sagona (Roma, 1967). Nel corridoio di casa sua.
Sono stati tanti in questi mesi gli spazi privati degli artisti che hanno aperto virtualmente le porte sui social media per darsi occasioni di visibilità che la pandemia ha reso impossibili. Ma New York, dove gli opening del giovedì sono un rituale settimanale collettivo, ama le sue gallerie e, senza lo spazio fisico delle condivisione qui e ora, la magia della scena artistica della città si perde. A poche settimane dall’inizio del lockdown, con la città deserta, le mostre ferme e tanto tempo a disposizione, Sagona ha avuto un “impeto di autarchia” e si è inventata “una galleria fatta in casa”, ci ha raccontato. Liberate le mensole blu di uno scaffale a muro nel suo ingresso, si è data all’allestimento e ha aperto il suo spazio. Lo chiama Foyer Gallery.
“È una galleria virtuale in un posto fisico la cui esistenza è legata a questo momento di quarantena. Mi sarebbe piaciuto esporre anche opere di altri artisti, ma per forza di cose ho dovuto lavorare con ciò che c’era a disposizione e utilizzare i miei stessi lavori”.
Ne è nato un percorso che si è aperto con la prima mostra, inaugurata, come tradizione vuole, di giovedì. L’artista ha allestito sulle mensole gli oggetti dorati della sua installazione Eden, del 2017, riorganizzata, in tempi di Coronavirus, in un catalogo di ringraziamenti. La mostra originale era composta da una serie di oggetti e personaggi, in parte ceramiche create dall’artista, in parte oggetti trovati per caso e poi immersi nel gesso, tutti dipinti d’oro. “È un lavoro che parte dall’idea della favola morale”, ci ha spiegato Sagona. “Gli oggetti, insieme, costruivano una storia che riprendeva il mito di Mida che muore di fame perché toccando il cibo lo trasforma in oro e non se ne può nutrire. Un paradiso terrestre che è un paradosso terrestre in cui non si può godere davvero di quel che c’è. Con l’emergenza COVID, ho riutilizzato gli elementi di quella installazione per costruire una narrativa completamente diversa, legata a un momento in cui siamo tutti chiusi in casa con i nostri possedimenti”.
LA GALLERIA REALE E VIRTUALE DI MARINA SAGONA
La galleria è reale e virtuale allo stesso tempo. Reale perché è fisicamente nello spazio della casa dell’artista, virtuale perché accessibile solo attraverso Instagram dove, per la prima mostra durata quattro settimane, Marina Sagona ha pubblicato ogni giorno un breve video che, scorrendo tra gli oggetti esposti sulle mensole, si fermava poi su uno di essi, associandolo a una canzone e a un ringraziamento. “Ho voluto ringraziare i medici e gli infermieri, come è ovvio, ma anche mio padre, cui ho associato un piatto di pasta, per tutte le ricette che mi ha insegnato e che nella quarantena mi sono tanto servite; e mia madre, cui ho associato un ferro da stiro, per tutte le cose pratiche che mi ha tramandato e che in questo momento di autosufficienza sono risultate molto utili”. Tra gli altri oggetti, un serpente e una mela, accompagnati, nel video su Instagram, dal Requiem di Mozart, per ringraziare dei peccati che siamo liberi di commettere nel privato delle nostre case; una coppia di statuette in cui l’uomo, al posto della testa, ha un indice puntato contro la sua compagna, associata a La Javanaise di Serge Gainsbourg e “usata per ringraziare di non avere un marito di cui dovermi occupare in questo momento”; un fiasco accompagnato da That’s Amore e usato per ringraziare i produttori del vino che ha reso la quarantena più sopportabile. “Ho voluto usare alcuni degli oggetti anche per scherzare, fare ironia e provare ad alleggerire un po’ questa situazione”, ci ha detto l’artista.
LA MOSTRA COUSCOUS
La seconda mostra, aperta il 28 aprile e attualmente in corso, si intitola Couscous e riprende un lavoro che Sagona aveva concluso lo scorso anno e dedicato a suo padre, originario di Tripoli e appassionato di cucina: “Mio padre comunica attraverso il cibo e le sue ricette. Così ho voluto raccontarlo con un video, che era parte di un lavoro più ampio, in cui lui spiega come fare il couscous. È un lavoro che parla dei rapporti di dipendenza e del rapporto con il cibo”. In questo caso l’artista pubblica ogni giorno su Instagram un video che mostra una parola e un’immagine, associate alla sua voce che pronuncia una frase prendendo spunto da quella parola. “È un’operazione di ri-narrazione”, ci ha raccontato.
“Le parole e le immagini sono selezionate dal video che faceva parte del lavoro originale, ma qui sono utilizzate per raccontare una nuova storia. Quella della video è la storia di mio padre, mentre questa che si compone con i vari post, organizzati in senso cronologico, è la mia storia fin qui. Tutto questo non è esplicitato nell’installazione né nei video, ma seguendo il corso dei post si compone una sorta di autoritratto”. La prima parola è stata “me”, poi “figlia”, poi “padre”, poi “1939” e ancora “Roma”, “Tripoli” e così via fino a delineare un ritratto intimo in cui l’io si definisce in relazione all’altro. Intanto, nella galleria fisica, sulle mensole dello scaffale in corridoio, sono esposte le stampe dei fotogrammi estratti dal video originale. “In questo caso ho voluto invertire il processo e svelare l’allestimento solo alla fine, quindi l’ultimo giorno mostrerò lo spazio reale del foyer di casa mia e si capirà che i video sono fatti inquadrando le stampe”.
LA MOSTRA UBI CONSISTAM
A quel punto la Foyer Gallery verrà riallestita per la terza e ultima mostra della stagione, Ubi Consistam, espressione tratta dalla famosa frase di Archimede, “datemi un punto d’appoggio e solleverò la terra”. “È una mostra sull’identità in bilico tra due sponde e sulla necessità di un punto su cui fare leva per creare un’identità”. A partire da giovedì 28 maggio, nell’ingresso di casa dell’artista ci saranno in mostra dieci opere, in parte già esposte in una collettiva a Manhattan lo scorso dicembre, che riproducono, attraverso dei calchi smaltati di rosso, cinque organi interni e i cinque organi di senso: “Sono opere in negativo che raccontano una cosa che non c’è. Descrivo qualcosa attraverso la sua assenza, attraverso il vuoto. Sono i miei organi che vengono evocati attraverso lo spazio negativo di quello che realmente sono, nascono dal desiderio di dare corpo a un vuoto, a una identità che trae origine dalla mancanza di definizione”. In un processo di progressiva sottrazione, stavolta l’artista pubblicherà su Instagram dei brevi video senza parole e senza musica ma solo con dei suoni. “La prima mostra era molto ricca, le opere erano tutte dorate e c’erano musica e parole. Nella seconda c’erano solo le parole. Nella prossima la parola sparisce”.
Per un esperimento nato in risposta a un’assenza, è interessante chiudersi proprio con un’operazione di sottrazione. “Per ora la Foyer Gallery finisce qui”, ha spiegato la fondatrice, “con questa terza mostra, con la fine di questo periodo di isolamento che spero finisca anch’esso qui. L’idea di chiudere mi fa bene, è un’idea legata alla speranza, la speranza che presto si torni tutti nei luoghi realmente preposti all’esposizione e condivisione delle opere d’arte. Per me è stato vitale in questi mesi pensare a questo progetto, dedicarmici fisicamente, stancarmi, salire su una scala, installare. Così come credo sia stato straordinario quello che hanno fatto tutti i musei e le gallerie continuando le attività online. Ma è fondamentale che ci sia un rapporto fisico con l’arte e che presto si torni a fruirne in modo tradizionale, perché l’arte è nutrimento”.
UNO SGUARDO AL FUTURO DI NEW YORK
Marina Sagona non ce lo racconta, ma il percorso che le sue tre mostre compongono sembra un riflesso di quella parabola di (sano) ripiegamento su se stessi che molti hanno vissuto nel corso di questo periodo di isolamento: da uno sguardo all’esterno e un anelito verso l’altro, togliendo progressivamente materia e stimoli, siamo tornati a noi stessi, ripercorrendo il processo di formazione dell’io, fino a sviscerare l’interiorità più profonda e scoprire che è proprio nell’assenza che la vediamo e comprendiamo. E chissà che in questo non ci sia una lezione anche per l’arte, per New York e per una scena artistica che ha chiuso i battenti all’indomani dell’Armory Show e che normalmente lavora per addizione più che per sottrazione, scegliendo spesso la strada del troppo. “L’arte è il tessuto connettivo di questa città, ciò che ci attira tutti qui come api al miele”, ha concluso Marina Sagona. “Ma la frenesia newyorchese ti dà tanta energia e tanta altra te ne toglie. Io per esempio, in questo periodo, senza avere scadenze, senza i rapporti sociali e gli eventi, sono stata chiusa in un mio bozzolo produttivo molto fertile. E così è stato per tanti. Liberata dal FOMO [Fear Of Missing Out, tipica sindrome di chi vuole fare troppe cose insieme, N.d.R.], New York ha avuto e continua ad avere un momento molto creativo. L’isolamento ti priva dell’energia che trai dalla condivisione dell’arte, ma contemporaneamente ti regala il tempo e lo spazio necessari per non disperdere e utilizzare l’energia che hai in te”.
‒ Maurita Cardone
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