Ripartire dalla moda. Intervista a Maria Luisa Frisa
Direttrice del Corso di Laurea in Design della Moda e Arti multimediali allo IUAV di Venezia e curatrice della mostra riaperta al Museo Poldi Pezzoli di Milano, Maria Luisa Frisa commenta le posizioni prese dal mondo della moda nei confronti della pandemia. E lancia un appello al ministro Franceschini.
Nella moda la sensazione che questo disastro virale possa rappresentare anche un’opportunità è molto forte: una sensazione confermata da azioni concrete e molto costruttive come la lettera scritta da Dries Van Noten e altri importanti fashion designer. Una lettera programma che cerca di ristabilire degli equilibri in una situazione già in crisi, soprattutto per i ritmi di produzione frenetici e molto confusi. Stessa idea di opportunità presa al balzo da Giorgio Armani che decide di far sfilare a Milano anche la linea d’alta moda Armani Privé dopo anni a Parigi. Una decisione epica, che aiuta realmente il nostro Paese.
Ma la moda è spettacolo, arte e cultura, il panorama da rimettere a fuoco è molto complesso: ne abbiamo parlato con Maria Luisa Frisa, professore ordinario in Fashion Design e direttrice del Corso di Laurea in Design della Moda e Arti multimediali allo IUAV di Venezia, curatrice di mostre fondamentali per la giusta collocazione culturale della moda come Memos ora visibile al Museo Poldi Pezzoli di Milano e direttrice del nuovo magazine Dune, edito da Flash Art.
L’ultima volta che ci siamo viste era proprio per l’apertura della tua mostra Memos a Palazzo Poldi Pezzoli a Milano; da lì a qualche giorno tutto si è fermato, congelato dal virus. La mostra ha riaperto in questi giorni e prendo spunto dal sottotitolo di Memos: A proposito della moda di questo millennio per chiederti quali sono i veri cambiamenti che intuisci.
Mi pare che in questo momento i veri cambiamenti in atto siano quelli obbligati dai protocolli sanitari, che stanno ridefinendo tempi e modi del fashion system: da quelli della produzione a quelli della rappresentazione/comunicazione fino inevitabilmente a quelli del business. Tutti continuano a riferirsi a un’idea di dopoguerra e a citare la rivoluzione del New Look di Dior come risultato della Seconda Guerra Mondiale. Noi però non abbiamo vissuto una guerra. Noi stiamo vivendo dentro una pandemia e forse dovremmo rapportarci alla spagnola di cento anni fa e allora citare l’immagine di Chanel come donna moderna degli Anni Venti.
Cosa pensi delle posizioni prese da Armani e di altri designer e della lettera di Dries Van Noten?
Le prese di posizione dei designer sono importanti poiché evidenziano quanto ciascuno cerchi di interpretare questo momento, che richiede visioni e progettualità. Recentemente ho letto una cosa illuminante e cinica in maniera liberatoria: “Il futuro non ha bisogno di noi”.
La riporto perché credo che quello di cui oggi abbiamo bisogno, e penso al nostro Paese, è cercare prima di tutto di valorizzare ancora di più il nostro sistema produttivo. Ossia riconfigurarlo e insieme valorizzarlo, ridefinendone la mitologia in chiave contemporanea.
Il concetto di Made in Italy va reinventato per affrontare un periodo che sarà difficilissimo in tutti i sensi, ma in cui, a fare la differenza, sarà la qualità impastata di valori. Penso sia importante focalizzare l’impegno sulle istituzioni rappresentative del sistema – e questa in Italia è Camera Nazionale della Moda – che devono essere punto di riferimento, oggi più che mai necessario, sia per le politiche del governo che per tutti gli attori del sistema. Perché si deve trovare quella unità d’intenti per avere quella forza contrattuale necessaria per una lucida ed efficace gestione della crisi.
Si parlava già di difficoltà dovuta soprattutto ai tempi frenetici di creazione e produzione. Pensi che questa, come per altri settori, sia l’occasione per riportare un equilibrio?
Sarebbe folle non usare il tempo sospeso che abbiamo a disposizione oggi per riflettere su certi comportamenti contrassegnati da un assurdo gigantismo. È necessario trovare modalità diverse di narrazione. Occorre interrompere quel flusso che agiva sull’accumulazione e creare una discontinuità. La distruzione della continuità obbliga alla ripartenza e all’esplorazione.
L’atteggiamento del governo ti sembra corretto, nella moda come nell’arte?
È difficile giudicare adesso a distanza così ravvicinata le azioni che sono state messe in atto. Mi pare siano stati costruiti troppi gruppi di lavoro, che impediscono di agire velocemente e che si rivelano spesso inutili. Poi le donne non sono state coinvolte. E ho trovato ancora più offensivo la task force “donne per un nuovo rinascimento”, che come sempre è un contentino che ci ghettizza (e fatto da un ministro donna diventa ancora più grave).
L’arte non è solo la riapertura dei musei, è la complessa galassia della cultura. Di questa galassia fa parte anche la formazione. L’università. Quella istituzione che ci insegna a comprendere l’importanza e la bellezza di un libro, di una architettura, di un’opera d’arte. Quella istituzione che ci fornisce gli strumenti per vivere una vita migliore. Nessuno si è preoccupato di questo a livello ministeriale (solo recentemente su La Stampa è stato pubblicato l’appello di una serie di intellettuali). Tutti a magnificare l’insegnamento in assenza, come viene chiamato. Infatti è assenza, mancanza di confronto e dialogo. Ci rendiamo conto dei danni che la mancanza della scuola come territorio della crescita e della conoscenza produrrà? Si può uscire per bere uno spritz ma non per andare in aula. In questi giorni hanno annunciato che la Biennale Architettura, che era stata posticipata alla fine di agosto, slitterà al 2021, mentre la Biennale Arte sarà nel 2022 invece che nel 2021. Per la città di Venezia, già provata dall’acqua alta lo scorso novembre e poi dalla pandemia, è un colpo durissimo a tutti i livelli. Ma questo rinunciare, abdicare al proprio ruolo di importante istituzione culturale vuol dire che non si cerca di accettare la sfida di superare il gigantismo del modello Baratta, come invece sarebbe stato interessante tentare di fare. Anche perché questa è una riflessione che andrà fatta. La cultura, l’arte sono anche atto di resilienza e di immaginazione. Forse si sarebbe potuto provare a fare una mostra ‒ e sappiamo quanto nelle mostre siano importanti l’idea, il progetto – che fosse cantiere di una visione alternativa. E soprattutto di nuove visioni.
Fai parte della categoria convinta che bisogna solo aspettare che passi per tornare a come eravamo o della categoria che pensa di dover reinventare e aprire altre strade?
In parte ti ho già risposto. Ho sempre pensato che non si possa tornare indietro. Coltivare la nostalgia può funzionare quando la nostalgia diventa un sentimento che genera azioni, non illusioni. Credo sia necessaria una diversa consapevolezza. Trovo molto sbagliate le tante pubblicità da lockdown che stiamo vedendo alla televisione: “Il momento difficile passerà ma poi torneremo a vivere come prima”. Tutto condito in salsa buonista con l’esaltazione della bellezza delle città vuote.
Riponi fiducia nel virtuale? Nell’online dei talk e degli showroom invocati dalla lettera di Van Noten?
Ripongo una equilibrata fiducia nel virtuale: può essere un ottimo alleato in certi momenti ma non è la soluzione. Soprattutto non deve diventare la scusa per ritirarsi nella comfort zone, smettere di vivere e di confrontarsi con il mondo. Venendo alla moda, ricordiamoci che ha a che fare con il corpo, con il desiderio, con la sensualità.
Pensi che sapremo reinventare il nostro tempo?
Dobbiamo essere capaci di farlo.
La tua mostra al Poldi Pezzoli affronta già l’idea di reinventare il tempo con il confronto fra la contemporaneità della moda e il luogo, dimostrando la capacità del manufatto contemporaneo di convivere con l’opera antica.
Un progetto espositivo come Memos prende forma e agisce anche in relazione a un territorio espressivo, i cui luoghi sono attraversati dalla potenza di una storia impastata anche del valore civile, politico ed estetico delle vicende e delle azioni di chi l’ha abitata o governata. La dislocazione degli oggetti, l’atlante che dispiegano anche in relazione a questo preciso luogo. La casa museo Poldi Pezzoli è stata anche il luogo di una serie di mostre di moda – come la fondamentale 1922-1943: Vent’anni di moda italiana a cura di Grazietta Butazzi – che hanno guardato precisamente alla moda come a un campo di indagine, sul piano storico, critico e curatoriale. La mostra del 1980 aveva in catalogo come sottotitolo: Per un museo della moda in Italia. Di qui la scelta di riattivare il legame del Poldi Pezzoli con la moda, attraverso una riflessione che tocca il complicato rapporto tra moda e museo e il tema delle occasioni mancate per la creazione di un museo della moda in Italia.
Ci puoi raccontare quello che ti ha guidato per realizzare Memos?
Memos prova a chiarire cosa significa affrontare un progetto curatoriale e quali rapporti il curating ha con le pratiche progettuali che informano la moda contemporanea, per far capire che di una mostra non è importante solo l’esito ma (forse e soprattutto) il processo che l’ha generata. È in questa dimensione che le domande prendono forma, e che gli oggetti, il display, i testi si intrecciano cercando di fornire alcune possibili risposte. Curare una mostra è un gesto che oggi più che mai si avvicina a quello del fashion designer e del direttore creativo: mi vengono in mente le ‘scorciatoie’ di Virgil Abloh o i ‘campi di riattivazione poetica’ di Alessandro Michele. Perché la moda, l’ho già detto molte volte, non è solo una questione di vestiti: è soprattutto una disciplina che affronta la contemporaneità, la interroga, la definisce senza chiuderla. E nel fare questo parla di noi, del nostro stare nel tempo.
La tua collaborazione con Milano ha lasciato tracce culturali importanti sia come mostre che come testi. Pensi che Milano continuerà a essere così forte nel panorama della moda?
Milano deve continuare a essere un punto di riferimento nel sistema della moda in Italia, e nello stesso tempo mantenere un dialogo con le città e le rispettive istituzioni della moda degli altri Paesi. Milano è la città della moda in Italia come lo è Parigi per la Francia o Londra per il Regno Unito. Abitiamo in un Paese punteggiato di numerose città che disegnano il viaggio della moda in Italia. Questa è una grande ricchezza. Milano rappresenta la tappa centrale di questo viaggio.
Cosa faresti se ne avessi l’autorità e la forza per far rimanere la moda un punto di riferimento creativo, economico, culturale?
Credo sia arrivato davvero il momento di investire nella cultura della moda. L’ho detto più volte: l’Italia, nel tempo, non ha assegnato alla moda quel ruolo culturale che oggi ci permetterebbe di dialogare alla pari con i musei e le istituzioni che all’estero si occupano di moda e valorizzano in primis la moda dei rispettivi Paesi, come il Palais Galliera e Les Arts Décoratifs a Parigi, o il Victoria and Albert Museum a Londra. E poi c’è tutto il tema della formazione, per me centrale. Le università che trattano la moda in modo serio come disciplina da trasmettere anche nella dimensione laboratoriale sono pochissime, e il Ministero dell’Università e della Ricerca per ora ha prestato poco ascolto alle sollecitazioni. La moda è un punto di riferimento e deve continuare a esserlo, abbiamo un laboratorio inventivo e produttivo unico al mondo. È necessario valorizzare il ruolo culturale della moda per promuovere anche il sistema. La Galleria del Costume di Firenze – ora Museo della Moda e del Costume –, che poteva essere un punto di riferimento con l’importante collezione di cui dispone, è ancora una volta una occasione mancata per tante ragioni che non possono essere elencate in questa sede. Spero che il Ministro Franceschini legga questa intervista e magari abbia voglia di fare una chiacchierata su questi temi non più rimandabili.
‒ Clara Tosi Pamphili
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