Il futuro è local. Intervista alla curatrice Giovanna Massoni
Il senso di onnipotenza che affligge il sistema design, l’ammissione di responsabilità che non è arriva-ta, l’importanza di dare risposte locali e personalizzate a problemi globali. Di questi e altri temi ab-biamo parlato con la curatrice di Belgium Is Design, Reciprocity Design Liegi e della Maison POC sull’Economia Circolare a Lille 2020.
Curatrice italiana di stanza a Bruxelles, Giovanna Massoni si occupa di design e innovazione sociale seguendo progetti ben radicati nel territorio in una zona d’Europa, quella che si allarga dal Belgio al nord-est della Francia, fortemente design-oriented e caratterizzata da politiche regionali all’avanguardia. Al centro della maggior parte delle iniziative su cui ha lavorato c’è il ruolo del design nel portare cambiamenti positivi nelle comunità locali. Nel corso del suo lavoro per Belgium Is Design, il marchio che riunisce e promuove le diverse anime progettuali del Paese, e per le entità che lo hanno preceduto, ha spesso concentrato la sua attenzione su temi legati a materie prime alternative e di recupero.
Nell’ultima edizione di Reciprocity, la triennale di design di Liegi di cui è direttrice artistica dal 2012, ha trasformato le fragilità umane legate all’età, alla malattia o alla precarietà (in particolare con Fragilitas, insieme di tre mostre rivolto all’esplorazione di soluzioni progettuali a problemi di questa natura) in leve positive. Questa primavera, nell’ambito di Lille Capitale mondiale del design 2020, avrebbe dovuto inaugurare la Maison POC – uno degli atelier tematici su cui si basa il format dell’evento – dedicata all’economia circolare, con una serie di contributi venuti dal basso, dal territorio della Métropole francese.
Nel momento in cui l’Europa si sta gradualmente deconfinando e si apre la questione del “dopo”, le abbiamo chiesto la sua opinione sulla situazione attuale, su come il mondo del design si prepara a ripartire e sulle occasioni perdute – in particolare quella di ricostruire il sistema su basi più etiche. Oltre a fare il punto sui suoi progetti in corso, alcuni dei quali hanno subito uno stop di qualche mese (ma torneranno presto).
Cosa può fare il design in questo periodo? C’è stata e c’è ancora molta mobilitazione, dalle iniziative dei fablab ai tutorial in Rete per realizzare da soli le proprie mascherine.
Non vorrei essere poco incoraggiante, però ho una visione piuttosto pessimista. Vedo in chi si occupa di design una grande urgenza di fare, di proporre soluzioni, come se il design avesse tutte le risposte. Questo va benissimo, intendiamoci: rispondere a uno stato di emergenza con la solidarietà è profondamente umano, e trovo naturale che i giovani in particolare non vedano l’ora di mettersi in gioco. Prima di tutto, però, avrei voluto sentire un mea culpa da parte del sistema design. Tra crisi ambientale e crisi sanitaria, è in parte responsabile di un fallimento.
Che cosa abbiamo sbagliato?
C’è qualcosa di estremamente pretenzioso, una presunzione che secondo me è un po’ tipica del mondo in cui ci muoviamo, nel dire “arrivo io e ti risolvo tutto”. Abbiamo creduto che il design, espressione della rivoluzione industriale, potesse cambiare il mondo e fosse in grado di rendere la realtà sempre migliore, all’infinito. In realtà, nonostante abbia creato strumenti importanti, per esempio delle tavole di dialogo tra designer e industria e tra designer e amministrazione, è stato anche un complice diretto dei problemi di oggi, causati da un atteggiamento troppo antropocentrico.
Che fare?
Rallentare e riflettere, per cominciare. La dimensione dei social media ci obbliga a dire sempre qualcosa, mentre avremmo avuto bisogno di un momento di grande silenzio. Il deconfinamento graduale ci lascia il tempo della riflessione, vale la pena fare una pausa nella produzione di idee per ripensare tutto il sistema. Con Belgium Is Design stiamo organizzando una conferenza per il Fuorisalone digitale di giugno e ci stiamo interrogando proprio su questa necessità di proteggere e rigenerare il sistema design. C’è il binario del mondo reale, dove ci sono iperproduzione e iperconsumo, e c’è il mondo mediatico che lo segue a ruota e sta commettendo gli stessi errori. Bisogna passare dalla logica dell’emergenza alla logica della prevenzione.
In che modo?
Il design dell’emergenza cerca di ripristinare qualcosa che si è rotto, di riattaccare i cocci, mentre quello che dovremmo fare è capire come possiamo arrivare a non avere cocci. Nel mondo del design il “fare” è spesso orientato alla produzione di oggetti, ma se manca tutta la strategia intorno gli oggetti diventano spazzatura. Prima di progettare l’ennesimo oggetto o servizio, dobbiamo immaginare il vasto contesto, il macrocosmo e il microcosmo, in cui si muoverà, per capire se può funzionare. Se il progetto non è utile, o se lo è ma ha una data di scadenza, va lasciato in un cassetto. C’è tutta una serie di domande filosofiche che dobbiamo farci: che cos’è il funzionale? Che cos’è l’indispensabile? Quando la ripartenza sarà completa non ci saranno più il tempo né gli spazi per riflessioni di questa portata, la priorità tornerà ad essere la corsa del sistema.
Parliamo del tuo lavoro. Nell’ultima edizione di Reciprocity, nel 2018, hai proposto un percorso di tre mostre dedicate alla fragilità. Oggi, nelle circostanze in cui ci troviamo, ci siamo riscoperti tutti un po’ più fragili…
Ho notato anch’io questa corrispondenza, quel lavoro è stato in un certo senso profetico. Allora non si parlava di emergenza, se non per alcuni dei progetti in mostra [pensati per soggetti in situazioni di grande precarietà, a causa di guerre o calamità naturali, N.d.R.], ma sentivo un’urgenza pazzesca di parlare di design e fragilità. In queste mostre piuttosto tecniche c’era un messaggio importante: bisogna stare sempre molto attenti a non dimenticare l’individuo, cosa che – aggiungerei oggi – si tende a fare quando si opera in emergenza. Il design non dà risposte universali. È importante anche la finalità aperta, quello che sviluppiamo per una determinata persona e pensando a un determinato problema può rivelarsi utile anche per altri. Questa ricerca di design for everyone ci dice: non devi per forza comprare un oggetto che si adatta a te e solo a te, ma puoi comprare un oggetto ed essere pronto a hackerarlo con i nuovi sistemi di stampa 3D, open source ecc. per trasformarlo secondo le tue esigenze. Questo messaggio è la cosa che mi ha più convinto in questi ultimi anni.
Per Lille Capitale mondiale del design 2020 hai seguito un progetto sull’economia circolare. Di che cosa si tratta?
Lille ha avuto questa candidatura grazie a un progetto che “parla di progetti”, che tiene insieme diverse iniziative in cui il design aiuta a integrare lo sviluppo sostenibile a livello territoriale. Tra queste ci sono le Maison POC, basate sulla “proof of concept”, la prova di concetto che è una tappa intermedia tra l’idea e il prototipo. Una fase molto tecnica, e spesso travisata, che serve al designer per testare la sua intuizione. È stata lanciata una call, rivolta principalmente alla Métropole (che comprende la città e le aree circostanti, per un totale di 95 comuni e oltre un milione di abitanti) ma aperta anche a partecipazioni internazionali. I progetti, nati su impulso di associazioni, università o cittadini, dovevano essere accompagnati da un designer – una sorta di tutor – e sono tutti a circuito corto, con produzione locale. Il mio grande entusiasmo è nato quando ho cominciato a incontrare i soggetti promotori: ci sono progetti straordinari e altri che magari se fossi stata parte di una giuria non avrei premiato ma la dinamica collettiva è molto interessante.
Che cosa vedremo concretamente? Come avete reso tutto questo discorso legato alla circolarità?
Ci sarà una mostra, con le maquette e una parte di documentazione che aiuterà a capire i progetti meno facilmente visualizzabili (per alcuni abbiamo fatto ricorso anche a oggetti simbolici), e ci saranno ospiti internazionali che porteranno le loro testimonianze, basate su pratiche che portano un po’ all’estremo tutti i discorsi legati all’economia circolare. Il tutto in un antico convento, dato in dotazione per tre anni al collettivo di architetti Zerm che lo sta ristrutturando in maniera sostenibile. Così l’evento stesso diventa circolare, investiamo in riabilitazione per lasciare qualcosa che rimanga alla città. Comunque, il concetto che vogliamo veicolare è soprattutto che l’economia circolare non è veramente circolare.
In che senso?
Siamo ancora in una fase in cui la circolarità è più un modello teorico che una realtà. Per esempio, ricicliamo le bottiglie ma anche il loro riciclo ha un impatto. La regola che rimane è che il design è in grado di adattare delle soluzioni a un territorio, e che ogni territorio ha norme diverse. Perciò possiamo dire che esiste un’economia circolare per ogni territorio.
Il palinsesto di Lille 2020 doveva aprirsi ad aprile, ma è slittato tutto per colpa del Coronavirus. Ci sono già le nuove date?
Se tutto va bene partiremo a settembre e le mostre dureranno tre mesi, fino a novembre. Il grande dubbio che abbiamo, sul quale stiamo riflettendo in questo momento, è se l’economia sociale e l’emergenza post-Covid-19 siano compatibili. Questo perché l’emergenza ambientale è sempre stata ritenuta, a torto, un problema da élite.
‒ Giulia Marani
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