Testimonianze dalla Cina: parla Lu Jingjing, Direttrice della galleria Beijing Commune
Nel momento della riapertura delle istituzioni culturali in Italia, condividiamo alcune le testimonianze di musei e gallerie cinesi, raccontando della pandemia che ha lasciato ovunque dei segni tangibili. Intervista a Lu Jingjing, Direttrice della galleria Beijing Commune di Pechino.
La galleria Beijing Commune di Pechino è stata fondata nel 2004 e ha inaugurato la prima mostra l’anno successivo. Nel 2006 è stata trasferita nella sede attuale – composta da due sale espositive di grandi dimensioni – collocata nel distretto 798, una zona punto di riferimento per l’arte di Pechino. Sin dalle origini, Beijing Commune è impegnata a promuovere lo sviluppo dell’arte contemporanea cinese. Zhang Xiaogang, Yue Minjun, Song Dong, Yin Xiuzhen, Hong Hao, Liu Jianhua sono stati alcuni degli artisti esposti presso Beijing Commune, con mostre di pittura, scultura, video e fotografia. Dopo qualche tempo, però, la galleria ha voluto cambiare direzione, puntando anche sugli artisti cinesi emergenti e in alcuni casi fungendo da trampolino di lancio per farli accedere a importanti istituzioni estere: l’artista Song Dong, ad esempio, nel 2009 ha ottenuto un posto al MoMA Project Series, allestendo la sua installazione WasteNot negli ambienti del museo newyorkese. Ancora, nel 2010, le opere video di Ma Qiusha e Zhao Yao sono state esposte alla Tate Modern per il festival No Soul for Sale, mentre Liang Yuanwe è stato uno degli artisti selezionati per il Padiglione Cina della 54a Biennale di Venezia del 2011. Beijing Commune di Pechino è tra le gallerie che durante questo periodo hanno sperimentato i pro e contro della programmazione digitale, partecipando in primo luogo alla viewing rooms di Art Basel Hong Kong. Ma basterà la mostra online per essere soddisfatti della fruizione artistica? L’intervista alla Direttrice Lu Jingjing.
Come avete gestito il periodo di chiusura della galleria?
In Cina la fase iniziale del periodo di blocco ha coinciso con il Capodanno Cinese, quindi praticamente non abbiamo fatto nulla in quel momento. Poi, quando le restrizioni hanno iniziato ad allentarsi, abbiamo optato per il lavoro da casa da remoto per parecchio tempo prima di decidere di riaprire il nostro ufficio.
Avete svolto delle attività alternative durante la chiusura, non potendo disporre dello spazio fisico della galleria?
Durante questo periodo abbiamo partecipato alla viewing room online di Art Basel Hong Kong che ha sostituito la fiera stessa cancellata a marzo.
Avete lanciato, invece, altre iniziative digitali coordinate direttamente dalla galleria?
No, in particolare durante il periodo di maggiore intensità del contagio abbiamo preferito non lanciare ulteriori progetti. Data però la buona risposta provenuta dalla partecipazione alla viewing room di Art Basel Hong Kong, abbiamo deciso di esplorare questo strumento di presentazione delle opere.
In che modo?
Al momento stiamo pianificando un programma espositivo con un’altra piattaforma online.
La pandemia ha stravolto le modalità più consuete di vivere e fare esperienza dell’arte. Cos’è cambiato per voi?
Penso che lo scoppio di questa epidemia ci abbia indotto a riconsiderare il significato dello spazio fisico di una galleria d’arte, di un museo, di un centro d’arte come luoghi di unione per l’intera collettività, dando loro più valore di quanto non facessimo prima.
Quali sono state per voi le difficoltà maggiori in tutto questo arco temporale, dallo scoppio del virus al suo contenimento?
Nel momento in cui questo spazio non è più accessibile, anche se i programmi possono ancora essere sviluppati online, l’energia che si potrebbe ottenere da un gruppo di persone riunite assieme in uno spazio svanisce.
A seguito di questa esperienza, pensa che l’arte possa avere un ruolo all’interno di questo fenomeno della pandemia?
Durante il lockdown ho visto molte persone su Internet improvvisare opere d’arte o gesti performativi di vario tipo– anche se alcuni di loro potrebbero non considerarli tali – per esprimere la loro rabbia e il loro senso di choc, il loro dolore e il loro sollievo durante la pandemia.
Cosa ha significato per lei questa serie di iniziative?
Queste forme di espressione artistiche diventavano universali e facilmente leggibili da tutti coloro che si trovavano sotto la stessa condizione di isolamento. Personalmente, erano anche ciò che mi faceva sentire che in fondo eravamo ancora umani e non solamente le creature respiranti e oppresse a cui tutti ci sentivamo ridotti durante il periodo più difficile.
Si ringrazia Manuela Lietti per la traduzione dal cinese
– Giulia Ronchi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati