Il futuro della legge Ronchey. Riflessioni sul rapporto tra pubblico e privato
Nel 1993 la legge Ronchey rivoluzionò l’approccio al mondo dei musei, sdoganando il ruolo dei privati. Oggi forse il rapporto tra pubblico e privato va rivisto e implementato, in linea con le esigenze dell’attualità.
Quando nel 1993 venne concepita e promulgata la cosiddetta legge Ronchey si diede vita a un periodo di forte innovazione nella gestione dei servizi museali, che, con alti e bassi, ha contribuito a migliorare in modo sensibile il modo in cui oggi i musei accolgono i visitatori e offrono loro servizi culturali.
Oggi, però, le condizioni di scenario sono cambiate, ed è cambiata anche la rilevanza che il sistema museale occupa all’interno delle molteplici dimensioni del nostro Paese.
Nei quasi trent’anni che ci separano dall’istituzione dei servizi aggiuntivi, il mondo ha conosciuto notevoli cambiamenti sociali, economici, tecnologici, culturali e politici, che rendono forse opportuna una revisione delle dimensioni attraverso le quali il settore pubblico e quello privato cooperano per fornire servizi e prodotti ai visitatori dei musei.
Procediamo con ordine: la legge Ronchey, come viene comunemente definito il decreto legge 14 novembre 1002, n. 433, recante misure urgenti per il funzionamento dei musei statali, disposizioni in materia di biblioteche statali e archivi di stato, convertito nella legge 14/01/1993, istituiva, nel nostro ordinamento, i cosiddetti “servizi aggiuntivi”, vale a dire quell’insieme di attività attraverso le quali i “musei” entrano in contatto con i “visitatori”, ammettendone la gestione da parte di soggetti privati.
RONCHEY. UNA LEGGE APPROVATA ALL’UNANIMITÀ
Una vera rivoluzione per l’epoca, che intercettava un bisogno diffuso, al punto che la suddetta legge è stata, come riporta La Repubblica di qualche anno fa, una delle poche leggi della storia repubblicana a essere approvata all’unanimità. Da allora, pur essendo variato il contesto normativo (oggi l’intera regolamentazione è raccolta all’interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio), i risultati che sono stati raggiunti sono stati importantissimi, al punto che oggi quasi tutti i punti di interazione tra “musei” e “visitatori” sono gestiti attraverso concessionari privati. È questo il caso dell’accoglienza, dell’erogazione di informazioni, della produzione e distribuzione di audioguide, di visite guidate e laboratori didattici, della gestione delle prenotazioni e dell’acquisto di biglietti, della produzione di oggetti e di cataloghi e della loro rivendita attraverso i bookshop. In pratica, tutto ciò che ha trasformato i musei in luoghi “attivi di fruizione”.
Nel tempo, tuttavia, sia il settore pubblico che il settore privato hanno conosciuto un periodo di forte professionalizzazione: se nel 1993 l’idea di gestire la rivendita di gadget come calamite e cartoline avrebbe potuto far rabbrividire i “puristi” della cultura, oggi, per fortuna, le cose sono molto cambiate. Le nostre amministrazioni si sono evolute, e hanno maturato anche capacità gestionali che, nello scenario in cui è stata creata la legge, non erano così diffuse. Nel frattempo i soggetti privati hanno creato delle specializzazioni importanti, sviluppando elevate competenze non solo in termini gestionali, ma anche e soprattutto in termini tecnologici, creando servizi innovativi e capaci di coinvolgere, nei casi più virtuosi, tutte le categorie di pubblico che transitano all’interno del nostro sistema museale statale.
“Forse arrivato il momento di avviare una seria riflessione sui rapporti tra soggetto pubblico e soggetto privato, per individuare i rapporti, gli strumenti e le modalità più efficaci per la creazione di esperienze in grado di incrementare il valore pubblico generato dai musei”.
A fronte di questi cambiamenti è forse arrivato il momento di avviare una seria riflessione sui rapporti tra soggetto pubblico e soggetto privato, per individuare i rapporti, gli strumenti e le modalità più efficaci per la creazione di esperienze in grado di incrementare il valore pubblico generato dai musei. Il tutto partendo proprio da quest’ultimo punto: il valore pubblico generato. Quando si parla di servizi pubblici, infatti, non si può ragionare esclusivamente con una logica monetaria, ma con una logica di “benefici” generati ai cittadini, in un’ottica che tenga conto del complesso delle attività erogate, e che si basi su principi di razionalità e di sostenibilità economica.
Senza cedere, né da una parte né dall’altra, ad antiche posizioni ascrivibili più al pregiudizio ideologico che all’analisi della realtà, è un dato di fatto che a oggi esistono servizi che il soggetto privato può svolgere meglio del soggetto pubblico, e viceversa.
Sarebbe dunque il caso di ripartire da queste competenze acquisite, valutandone le concrete applicazioni, e definendo, ove possibile, anche nuove categorie di servizi che consentano di poter adattare con ancora maggior coerenza il nostro sistema museale non solo agli standard internazionali, ma anche e soprattutto alle esigenze dei cittadini e dei visitatori.
Creare standard di qualità dei servizi e procedure di cooperazione formalizzate, attraverso le quali avviare un percorso che coinvolga non solo le superstar dei musei italiani, ma anche i piccoli musei statali, valutandone l’applicabilità anche per tutti quei musei pubblici di proprietà non statale.
UNA “NUOVA” LEGGE RONCHEY
Migliorare la sostenibilità economica della gestione museale, incrementando anche il livello qualitativo dei servizi, così da ridurre la necessità di trasferimenti diretti alle istituzioni museali e migliorando, al tempo stesso, la qualità dell’esperienza di fruizione.
In fondo, è nell’interesse pubblico, che può coincidere anche con l’interesse privato, creare un sistema museale nazionale in cui ogni museo, piccolo o grande che sia, presenti standard qualitativi comuni e fornisca ai visitatori servizi innovativi, coinvolgenti e stimolanti.
Nuove competenze. Nuovi strumenti. Nuove esperienze. È forse l’ora di una legge Ronchey 2.0.
‒ Stefano Monti
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