La “cultura del falso”. Intervista ad Andrea Rabbito
Falsità, inganni e illusioni sono solo alcuni degli elementi che rientrano nella “cultura del falso”. A indagare questo fenomeno con un approccio interdisciplinare è Andrea Rabbito nel suo ultimo libro edito da Meltemi. Lo abbiamo intervistato.
Fake news, post-truth e deepfake sono entrati a far parte del nostro vocabolario. In un mondo interconnesso come il nostro, questi trovano maggior vigore animando dibattiti socio-culturali, scientifici e politici. Ma da dove traiamo le loro origini? Quali sono gli strumenti per capirle e affrontarle con consapevolezza? Il libro Cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news di Andrea Rabbito – docente associato di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli Studi di Enna “Kore” ‒ approfondisce l’argomento con un’accurata analisi coinvolgendo trenta esperti. Riflessioni e ricerche si intrecciano alle opere di Benedetto Poma, accompagnando il lettore alla scoperta di uno dei fenomeni culturali più rilevanti della nostra epoca.
L’INTERVISTA AD ANDREA RABBITO
Da dove partono le indagini storiche della ricerca sulla “cultura del falso”? A suo avviso, e sulla base degli studi condotti, c’è un periodo storico artistico che rispecchia l’argomento?
Da come si evince dai vari saggi che compongono il volume, quando si prende in analisi la “cultura del falso” e la sua genealogia non si può che risalire ai tempi più remoti dell’umanità per giungere sino ai nostri giorni. Un arco temporale così esteso proprio perché le declinazioni del falso sono connaturate nell’essenza dell’uomo e in molte delle sue azioni. Sin dalla comparsa dell’homo sapiens, se prendiamo studi come quelli condotti da Georges Bataille, viene messo in luce come la nitida coscienza della morte gli impone la ricerca di espressioni del falso, fra cui, ad esempio, la pittura rupestre.
All’origine del falso c’è l’arte?
L’atto magico che prevede la creazione del doppio mediante l’uso di un linguaggio artistico si offre come una declinazione del falso, in quanto dà vita a: falsa presenza del soggetto rappresentato, falsa preservazione dell’essere vivente, falsa attendibilità della rappresentazione, falsa restituzione di vita e falso movimento reso – ed è da questo presupposto che Edgar Morin sottolinea come in genere i fenomeni magici sono potenzialmente estetici, e viceversa. Ma questa presenza del falso non solo connota la nostra dimensione estetica, ma anche la nostra vita pratica, durante la quale ci confrontiamo continuamente con inganni, illusioni, alterazioni, mistificazioni, imbrogli, anche questi sorti sin dalla notte dei tempi; si prenda a riguardo l’Antico Testamento e si ricordi come il dialogo con Dio da parte dell’uomo sia caratterizzato molte volte dalle falsità espresse da quest’ultimo (sia Adamo ed Eva sia Caino dicono il falso al loro Creatore).
Qual è l’obiettivo del libro?
La sfida del libro è partire dalle fake news, fenomeno caratterizzante questo periodo storico, per inquadrarlo all’interno di un insieme molto più articolato e vasto, quello della cultura del falso, che non può che contemplare vari periodi storici, vari linguaggi, vari ambienti che vanno da quelli artistici a quelli della comunicazione. Questo è stato fatto per offrire un’indagine quanto più ampia e approfondita di una realtà complessa, di una articolata “cultura” che, a volte, troppo semplicisticamente viene incasellata in alcune delle sue più eclatanti declinazioni. E abbiamo voluto considerare – ed è la seconda sfida del libro – la cultura del falso come un Giano bifronte, da un lato sviluppata nella dimensione pratica (comunicazione, interazione, dialogo, informazione) dall’altro lato promossa nella dimensione artistica, mantenendo l’idea di contemplare necessariamente diverse epoche storiche.
Qual è l’epoca che ci può insegnare di più a proposito dell’attuale situazione?
Se dovessimo trovare un momento storico del passato che ha posto le basi all’epoca in cui viviamo e che ha sviluppato un’attenta produzione e un’analisi profonda relativa al falso, non potrei che indicare il tardo Rinascimento e, soprattutto l’intero Barocco. Proprio l’arte barocca ha voluto accentuare il grado di somiglianza per creare l’illusione che ciò che è rappresentato risulti presente dinnanzi agli occhi dello spettatore, e ciò ha permesso la diffusione di quella che Wunenburger definisce come la “cultura del falso”, che tiene in scacco la verità e rende l’uomo incapace di distinguere il falso dal vero, l’immagine dalla realtà.
Lo stile pittoresco, la cultura del falso, il gioco delle apparen ze, l’eccesso della somiglianza, il trompe-l’oeil, la mise en abyme, l’illusione del movimento, tutto questo fu particolarmente sviluppato durante il Barocco, al fine – in diversi casi – di mettere in discussione l’idea di realtà oggettiva, le capacità di lettura dei fenomeni, per mostrare la fallacità dei sensi e l’inganno delle apparenze, che dopo il buco del cielo di carta si imposero con particolare forza. Ciò emerge chiaramente in quello che può essere considerato un simbolo dell’opera barocca, ovvero Las Meninas di Diego Velázquez, in cui l’illusione, l’inganno, il falso in loro presenti sono funzionali a far riflettere proprio su questi.
Sicuramente gli strumenti di cui disponiamo oggi incentivano la capillarità delle fake news – e tutto ciò che fa loro da cornice. A tal proposito, in una passata intervista sulla nostra rivista, dichiarava che “proprio per questo probabilmente la consapevolezza della diffusione delle fake news e della post-truth può essere vista positivamente, in quanto sprona lo spettatore, così come facevano diverse opere barocche, a rendersi conto che non può accettare facilmente ciò che i media propongono e che deve attivare una coscienza critica e una messa in dubbio di ciò che vede, sente e legge. Pena sarebbe divenire dei nuovi Don Chisciotte nell’epoca del visuale”. Ebbene, dopo due anni, è ancora convinto di questo oppure ci sono esempi ed episodi che l’hanno fatta ricredere?
Persiste questa convinzione. Ed è un’idea che alla base della ricerca che conduco personalmente da dieci anni, che caratterizza la mia produzione scientifica e che adesso porto avanti insieme al gruppo di ricerca “I linguaggi artistici e le poetiche del Seicento” dell’Università degli Studi di Enna “Kore”. È uno degli insegnamenti che possiamo trarre dall’arte barocca: la “cultura del falso”, che gioca a non far distinguere il falso dal vero, serve a smascherare il falso; si inganna per far rendere conto dell’esistenza dell’inganno. Se questo vale per l’arte, può per certi versi funzionare anche in altri ambiti: la persistenza del falso mette infatti in allerta l’utente il quale diventa cosciente del possibile inganno in cui si può imbattere e questo può generare la sentita necessità di attrezzarsi culturalmente per far fronte alle declinazioni negative del falso.
Una coscienza critica può essere attivata dalle post truth e dalle fake news; ma è anche vero che, dall’altra parte, persiste la tendenza ad accettare ciò che i media offrono e molte volte viene meno un vaglio attento e critico di ciò che ci viene proposto.
Qual è la soluzione?
La vera soluzione è quella di sviluppare interventi strategici per contrastare i caratteri negativi del falso: e la strategia migliore è lo sviluppo di una cultura sulla cultura del falso, per fornire strumenti adeguati per individuare le menzogne e ostacolarle. Ed è questo l’intento del libro e dei trenta studiosi che vi hanno collaborato e scritto: promuovere una fake news/media/visual literacy.
E questo periodo connotato dal Covid-19 e dalle informazioni su di esso che univano il falso con il vero ha messo in luce la necessità di sviluppare strumenti per osteggiare la diffusione di una disinformazione fuorviante e persino pericolosa.
All’interno del libro sono stati indagati approfonditamente diversi settori in cui la cultura del falso ha trovato terreno fertile. Tra i tanti c’è anche quello delle arti visive, passando dalla fotografia al cinema, dal teatro alla performance, dalla televisione ai video e i new media. In questi diversi ambiti ha trovato delle analogie e/o differenze sull’utilizzo delle immagini in funzione della cultura del falso?
Dagli studi condotti dai diversi autori dei saggi del libro emerge che il dialogo immagini-cultura del falso, quando rientra nell’ambito artistico, quando rimane circoscritto nella dimensione estetica, è inteso in termini positivi e ha il più delle volte un valore riflessivo/critico metalinguistico, per recuperare in questo modo quella specifica tradizione dell’arte barocca; il falso nell’uso delle immagini all’interno della produzione artistica serve spesso a mettere in discussione e a far prendere coscienza delle caratteristiche del linguaggio che si sta usando, delle possibilità che si ha di veicolare informazioni errate e di renderle facilmente assimilabili come dati attendibili e veritieri; aiuta insomma a prendere coscienza dell’esistenza del falso nella comunicazione ma nello stesso tempo avverte della sua presenza all’interno della dimensione artistica. Penso alle analisi condotte in merito a F for Fake di Orson Welles (Cantone), a Belluscone di Franco Maresco (Di Giulio), alla video arte di canecapovolto (Parigi), ai fake trailer come quello realizzato da Robert Ryang che riformula Shining di Stanley Kubrick (Carocci).
E quando si parla di comunicazione?
Dall’altro canto, quando invece il dialogo immagini-cultura del falso rientra nell’ambito della comunicazione, emergono i caratteri più negativi. I quali, a loro volta, possono essere intesi o in termini positivi in quanto rendono possibile una presa di coscienza delle alterazioni e degli inganni facilmente realizzabili, come mette in luce l’uso del digitale (Lughi), offrono la dimostrazione che l’infosfera postmediale funzioni bene (Eugeni), danno supporto a inganni che assolvono però a funzioni di guarigione come insegna la storia dei ciarlatani (Tessari), sviluppano modelli di alto livello culturale che si contrappongono ai linguaggi massmediali più ingannevoli, vedi i lavori di Andy Warhol (Amendola); o possono essere intesi in termini negativi in quanto lavorano sul piano dell’emotività rischiando di veicolare facilmente un’informazione alterata (D’Aloia) e sono funzionali a una “programmazione” della società, come osserva Flusser (Vincenzo).
Riportando uno stralcio del libro, “’I media’, scrive Carr, riprendendo il pensiero di McLuhan, ‘non sono solo semplici canali per le informazioni’, non forniscono solo ‘materia per il pensiero’, ma ‘modellano anche il processo di pensare’”. Sulla base di tale affermazione, e con l’esperienza e gli studi affrontati, qual è la sua opinione riguardo a questo nuovo processo cognitivo? Come potrebbe evolvere o regredire questa trasformazione della struttura del pensiero che confluisce poi nel nuovo assetto comportamentale e – di conseguenza – sociale?
Il pensiero di Carr recupera quello di McLuhan, in buona parte racchiuso nel celebre “il medium è messaggio”, che mostra come il medium non debba essere considerato solo come un semplice canale di trasmissione di informazione. Più nello specifico McLuhan mette in luce il potere formativo dei media che riconfigura la consapevolezza e l’esperienza di ciascuno di noi. Pensiero che influisce su quell’idea, che citavamo prima, di riprogrammazione della società a opera dei media, espresso da Flusser. In relazione a questa linea di pensiero mi pare tutt’ora molto attuale il pensiero di Morin, espresso ne Lo spirito del tempo, in cui si mette in evidenzia come i linguaggi audiovisivi, grazie al loro quadruplice registro (immagine, suono musicale, parola, scrittura), proiettino lo spettatore verso una condizione “neoarcaica”, in quanto fanno affiorare quell’anthropos universale che è l’uomo immaginario o uomo-fanciullo, il quale è disponibile a immergersi in ciò che vede e a crederlo reale, ad affidarsi a esso, confondendo l’immagine con la realtà, il falso col vero. Questa condizione neoarcaica punta a farci assimilare facilmente un’informazione che distorce il reale – e, di conseguenza, la nostra opinione –, ci induce a credere alla “verità” che ci propongono i media, e, come osserva Bredekamp, le immagini attecchiscono e influenzano comportamenti, relazioni e pensiero.
Insomma le immagini tecniche hanno, fra le loro caratteristiche, quelle di veicolare più facilmente le declinazioni positive e negative della cultura del falso e di creare in noi un terreno fertile per la loro diffusione e accettazione, il più delle volte involontariamente.
Nel suo libro cita, ovviamente, Mirzoeff e i suoi studi sulla visual culture. Secondo lei, questi ultimi possono essere una valida chiave di lettura, o meglio, una guida per navigare con maggior consapevolezza in questo mare di immagini?
Tra queste onde mediali su cui cerchiamo di stare a galla, per non farci travolgere e sommergere, l’immagine acquista una centralità profonda, e il più delle volte caratterizza l’essenza di queste onde. E per cavalcarle e dominarle dobbiamo, come scrive McLuhan, praticare del surf sulla nuova onda elettronica, che è divenuta adesso principalmente digitale. Questo in concreto si traduce nell’impadronirci di una fake news/media/visual literacy per riuscire a surfare adeguatamente. E i visual culture studies si dimostrano tra gli strumenti più adeguati per riuscire a praticare il corretto surf su queste onde in quanto promuovono l’analisi delle diverse esperienze visuali nella nostra vita quotidiana, le forme tattico-strategiche per contrastare specifiche tendenze negative della cultura contemporanea, il coinvolgimento di diversi campi scientifici e studio di vari linguaggi ed epoche storiche differenti. E sono proprio le propensioni e le caratteristiche dei visual culture studies che questo volume ha fatto proprie, anche nell’idea di diventare, come scrive Mirzoeff, punto d’incontro delle varie discipline che trattano la questione della visualità.
Cosa pensa di Benedetto Poma e delle sue delicate pitture che accompagnano il testo?
Ho avuto il piacere e l’onore di poter lavorare per questo volume con un grande artista come Benedetto Poma. Se già nel volume precedente, relativo allo stato degli studi sulla cultura visuale in Italia, avevo potuto già collaborare con un altro artista di alto livello come Giovanni Zoda, questa volta per il tema della cultura del falso le opere di Poma mi parevano sposarsi perfettamente. Le trenta immagini a colori, che restituiscono le opere dell’artista siciliano, dialogano con i diversi saggi, proponendo, attraverso il linguaggio pittorico, un’intensa riflessione su alcune espressioni della cultura del falso.
Quali sono le caratteristiche di queste opere?
In queste opere regna, in primo luogo, lo spirito barocco, che è alla radice, come ho detto, delle analisi affrontate; e questo spirito emerge non solo nel recupero di celebri ambienti architettonici siciliani seicenteschi, ma anche nello stile dell’artista che espone e mette in luce il piacere della costruzione, dell’artificio, della farsa, della mise en abyme, di natura propriamente barocca e che si offrono per una speculazione sulla cultura del falso.
In secondo luogo, in esse si racchiudono – attraverso la ricercatezza dei particolari, un montaggio tra il passato e il presente, la riformulazione di diversi canoni, l’evocazione di miti e protagonisti della Sicilia più antica – una stratificazione di storie e di riflessioni che vedono quasi sempre presente una delle diverse declinazioni del falso, e una delle varie modalità di intenderle, per far divenire l’immagine stessa un saggio da analizzare alla stregua dei trenta studi che il volume raccoglie, in un dialettica tra parola e rappresentazione funzionale al piacere sia della lettura che della visione.
‒ Valentina Muzi
Andrea Rabbito – La cultura del falso. Inganni, illusioni e fake news
Meltemi, Milano 2020
Pagg. 552, € 20
ISBN 9788855191128
www.meltemieditore.it
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