Il giardino della Triennale prende vita. Intervista ad Andrea Dusio
Intervista ad Andrea Dusio, curatore per la Fondazione Maimeri de I sette messaggeri al giardino della Triennale, il programma di eventi che dalla fine di giugno alla metà di settembre animerà l’area all’aperto della istituzione milanese.
Ti conosciamo essenzialmente come curatore di mostre: abbiamo ammirato per esempio le splendide opere di Caravaggio che hai portato alcuni anni fa presso la Villa Reale di Monza. Ora, invece, per la Fondazione Maimeri nel giardino della Triennale di Milano, dal 23 giugno al 15 settembre, assumi un ruolo leggermente differente, ovvero quello di curatore di incontri culturali e artistici, nonché di moderatore. Com’è nato questo progetto? Come ti trovi e come vivi questo nuovo incarico?
Il progetto è partito da me che ho curato le ultime mostre della Fondazione Maimeri prima del lockdown. È un’opportunità nata dall’idea di costruire iniziative ed eventi culturali che coprano un ampio spettro di linguaggi e forme differenti per sperimentare non solo l’arena del cinema all’aperto o i concerti che comunque ci saranno, ma anche tanto altro, un po’ come durante il lockdown, per cui si sono moltiplicate le dirette sui social per la voglia di inserirsi su temi di interesse collettivo. Le serate si concluderanno sempre con un momento musicale oppure performativo. Sono previsti sei concerti e un momento di lettura di testi poetici. Mi sono occupato a lungo di musica come giornalista, in particolare negli Anni Novanta ed è sempre un mio grande interesse. Ho chiamato per questi incontri tanti amici musicisti, Omar Pedrini per esempio. Sul settore incombono interrogativi e incognite: Come saranno i concerti in futuro? Come sarà la vita degli artisti? Quali le loro forme di sostentamento? Non ho mai concepito quindi la mia figura solo come quella di curatore: sono una persona che scrive, scrivo libri per me, a volte scrivo libri per gli altri, come ghost writer. Non sono tecnicamente uno storico dell’arte, anche se comunque sono entrato in questo ambiente.
Da dove ha tratto origine il progetto I sette messaggeri?
Mentre ero in lockdown, sono stato molto al telefono e sui social ho curato una specie di rassegna stampa indipendente per cui cercavo articoli dedicati al Coronavirus pubblicati all’estero, perché quanto usciva in Italia non soddisfaceva pienamente la mia curiosità. Sono stato a Roma e ho avuto molte conversazioni telefoniche con amici lombardi e milanesi che mi chiedevano quando finirà, che cosa cambierà; io purtroppo non avevo risposte. Ecco che mi sono ricordato del racconto I sette messaggeri di Dino Buzzati, una specie di metafora del fatto che la dimensione del tempo è più grande di noi, non possiamo misurarne la grandezza e gli effetti. È anche una metafora della nostra situazione, per cui ci stavamo allontanando da un mondo che sembrava definito e conosciuto per spostarci verso l’ignoto, ma portando con noi dei messaggi dal mondo vecchio. Il futuro nel lockdown sembrava così lontano, così vuoto, mentre il presente era tutto perché eravamo bloccati. Anche il passato diventava immenso, era tutto ciò che avevamo, fatto di relazioni, affetti, esperienze… Alla fine quello che abbiamo compreso dal periodo di isolamento forzato è che la memoria contiene più cose del futuro.
Una mostra comunque ci sarà, giusto? Di cosa si tratta?
C’è la mostra fotografica di Maurizio Gabbana. Non ho ancora avuto modo di vedere i suoi scatti dal vero, li ho visionati soltanto online, ma li ho voluti perché rappresentano architetture e monumenti italiani, colti in buona parte di notte, con una tecnica a volte analogica, a volte digitale, che lui chiama “dynamiche infinite”, e ha la capacità di produrre attraverso la luce l’idea della trasformazione nel tempo di un’immagine, come se una fotografia potesse avere una durata nel tempo, un’eco, una sovrimpressione, una ridondanza. Manca la figura umana e anche questo mi ha ricordato il vuoto delle giornate lunghissime del lockdown.
È la prima volta che il parco della Triennale sarà così sfruttato, naturalmente in primo luogo per gestire al meglio la possibilità di incontri nonostante l’emergenza sanitaria. È un esperimento?
Il giardino della Triennale fino al 30 settembre avrà un programma vastissimo, realizzato dal team di Stefano Boeri, e costituito da un palinsesto di grandissima varietà. È qualcosa di unico che Milano non aveva. Si tratta del recupero di un luogo ricchissimo di opere d’arte, un sito di arte pubblica che noi magari non siamo abituati a considerare come tale, ma è così. Credo che tutte le cose di quest’anno saranno degli esperimenti, magari dei numeri unici o forse genereranno serialità, perché questo è un anno straordinario per tutto ciò che è accaduto. Noi non abbiamo mai avuto modo di vivere con così tante incertezze, interrogativi e incognite, dove tutto può essere messo in discussione, forse solo i nostri nonni che hanno fatto la guerra hanno sperimentato qualcosa di simile.
Come giudichi lo spazio a tua disposizione?
Qualora dovesse piovere, non esiste un piano B, valuteremo la possibilità di spostare gli spettatori sotto l’atrio, ma ci potrebbero essere problemi di distanziamento sociale elevati, la vedo un po’ complicata, abbiamo già dei percorsi di entrata e di uscita, non c’è da registrarsi agli eventi, chiaramente l’accesso è consentito, ma ci sono determinati limiti, si starà tutti seduti, rispettando il distanziamento, io metterò la mascherina anche sul palco, nel giardino ci saranno vari punti dove avverranno diversi eventi, non solo ciò che organizzo io. Il palinsesto prevede diversi spettacoli ogni giorno, il mio è il martedì, per la prima parte della serata.
Qual è il file rouge che collegherà i diversi incontri?
È l’idea dei sette messaggeri, dal racconto di Dino Buzzati, che ci consegnano qualcosa dal mondo da cui veniamo verso quello in cui andiamo. Non possiamo portarci tutto, qualcosa sarà cambiato, ma bisognerà guardare al futuro senza paura. Ho scelto i sette messaggeri pensando alla giovinezza, alla natura e agli alberi, alla filosofia e alle lettere, agli oceani e alla montagna, agli animali e alle città, al teatro, come luogo di prosecuzione del mito, all’arte come esperienza del nuovo.
Come hai selezionato i tuoi ospiti?
Li ho selezionati pensando inizialmente alle tematiche degli incontri, a chi poteva avere qualcosa da dire, scegliendo voci interessanti e non già “sature”. Saranno sette serate, una dedicata a Leonardo da Vinci, l’unica monografica, perché è un uomo del mondo antico che però ci segue fino alla contemporaneità. Ho invitato Claudio Giorgione, un curatore del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano e Sara Taglialagamba, una curatrice del Museo di Vinci, sono quindi dei giovani fuori dallo stilema classico della storia dell’arte, che hanno studiato anche i progetti scientifici di Leonardo.
Sono più di 30 le persone che ho coinvolto e nessuno mi ha detto di no. Vengono dal mondo dell’arte (Velasco Vitali, Tiziana Cera Rosco), dello spettacolo (Sebastiano Filocamo), dell’università, del giornalismo (Francesco Costa), della pubblicità (Annamaria Testa, Alberto De Martini), della creatività (Oscar Farinetti, Gianni Maimeri), in senso lato, per esempio c’è Davide Oldani, il famoso chef o c’è chi si occupa di alberi dal punto di vista artistico come la gallerista Lorenza Salamon, che ci parlerà degli alberi dell’artista Federica Galli, ma poi anche un architetto, uno scrittore… Ci saranno 6 o 7 fotografi, tra cui Marco Craig e Settimio Benedusi, ma nessuno parlerà essenzialmente di fotografia. La sfida è trovare e creare una narrazione coerente del momento che stiamo attraversando, intervistando voci non scontate, di cui non si sa ancora che cosa potranno dire.
Durante la Fase 1 molti si sono gettati nel lavoro e hanno presentato spesso progetti online. Cosa ne pensi? Tu come hai trascorso il lockdown?
Per gli incontri, ho contattato tante persone che non conoscevo personalmente nella vita reale, ma che ho trovato online. Gli strumenti digitali sono utilissimi per realizzare i progetti. Io vedo questi momenti nel giardino della Triennale come degli ipertesti da cui si possono sviluppare tante possibilità. Non voglio esaurire un tema, ma aprirlo. La rete è proprio uno strumento primario della progettualità. Per il lockdown ero a Roma, senz’auto. Quando era possibile, ho tentato di muovermi tanto, ho percorso chilometri e chilometri a piedi, da solo, e ho riscoperto la bellezza della città, con occhi nuovi. Sono stato molto al telefono. Fino all’anno scorso, non avevo lo smartphone. È stato interessante parlare con molte persone, alcune erano in completa solitudine, ho cercato di capire come ci muoviamo, i problemi degli altri, i loro dubbi.
Cosa ti aspetti dal futuro, in particolare per il tuo lavoro e il mondo dell’arte?
Secondo me, l’arte, se vuole sopravvivere, dovrà essere meno autoreferenziale e slegarsi un po’ dal mercato, per intrecciarsi sempre di più con il resto del mondo e mescolarsi alla società, per tornare a essere forte e incisiva. Credo davvero che sarà così.
‒ Vera Agosti
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