Le OGR di Torino invitano Patrick Tuttofuoco a fare un videogame
Tutto si può dire, tranne che le OGR di Torino siano prive di idee originali. Ora hanno invitato Patrick Tuttofuoco a ragionare sull'ambito videoludico. E cosa ci aspetta ce lo siamo fatti raccontare dal diretto interessato, qui in dialogo con il collettivo curatoriale Treti Galaxie.
L’ala Tech delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino ha appena compiuto un anno. Fra i tanti festeggiamenti, c’è anche un progetto particolarmente sfidante, che vede Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974) alle prese con un “videogame” – virgolette d’obbligo, come leggerete. Un percorso ancora nella fase iniziale ma di cui ci siamo fatti spiegare coordinate e obiettivi.
In cosa consiste questo nuovo progetto?
Parte da un desiderio di OGR di mettere in dialogo le due anime della sua realtà, da una parte Cult, legata all’arte contemporanea e all’arte performativa, dall’altra invece lo sviluppo Tech. In virtù anche della criticità che abbiamo vissuto è nato il desiderio di costruire un ponte, in termini di contenuti e progettuale, tra queste due realtà. Si è cercato un modo per produrre un contenuto che riflettesse, anche in seconda istanza, sulla problematica del momento ma che cercasse di usarne in maniera virtuosa almeno una parte.
Come avete lavorato?
Negli ultimi mesi abbiamo fatto delle call con 34 Big Things e Mixed Bag, le due realtà con cui stiamo lavorando, dove ci interrogavamo su quali erano le realtà più interessanti nel mondo dell’hi-tech – e su questo erano più loro a informare me, ovviamente – e sul modo di trovare un ponte tra queste due realtà. Nelle varie discussioni si è identificato il mondo del gaming come una dimensione in crescita e in grande evoluzione, e che ci avrebbe permesso, se approcciata con intelligenza, di far entrare in gioco delle forze di sviluppo e di contenuto, e la possibilità di coinvolgere un pubblico trasversale e ampio. Da qui è nato il desiderio di costruire una piattaforma, un “programma” o progettualità che ci permettesse di essere presenti in quel mondo, ma usandolo quasi come un cavallo di Troia per poi mettere in gioco delle pratiche che appartengono di più al mondo dell’arte o alla riflessione artistica. Stiamo facendo un vero e proprio esperimento di ricerca puro e di interconnessione. Il grado di “rischio” è altissimo, siamo proprio fuori safe zone.
Lavorate a qualcosa di inedito, quindi?
Non stiamo preparando una mostra, non stiamo nemmeno facendo un programma o una app, stiamo cercando di trovare un’interconnessione tra due mondi, e la criticità vissuta in questi mesi ci ha dato l’accelerazione necessaria e lo spazio per provare a fare tutto anche bene. Abbiamo visto che le viewing room spesso restituiscono poco o nulla. Forse è più interessante approcciare determinati temi con un linguaggio più vicino al mondo del gaming, però ponendosi dei risultati e degli ideali di fondo differenti.
A livello di tempi, ci puoi dire qualcosa?
Di lavoro ce n’è ancora tanto. Soprattutto dobbiamo capire in che modo posizionarci in uno spettro che va dall’operazione digitale concettuale all’operazione totalmente pop e commerciale. In questo momento il lavoro è indirizzato a capire in quale modo possiamo aggiungere qualcosa senza togliere, da entrambi i mondi, o comunque su che cosa poter contrattare e cedere e su che cosa no. È un’operazione molto delicata.
Qual è il concept?
C’è la volontà di rendere l’identità di chi entrerà in contatto con questa interfaccia molto importante nella generazione della storia e dell’interfaccia stessa. Non c’è spazio pre-costruito e guidato, ma uno dove ci può essere una interazione reale e anche visibile. Sono molto generico perché è molto ampio lo span che abbiamo davanti per queste possibilità, però sto cercando di mettere assieme una dimensione di community, una dimensione identitaria di chi fa parte di questa community, la possibilità di inserire su questa uno storytelling che abbia dei temi, che usino la piattaforma videogame come cavallo di Troia ma per poi inserire delle riflessioni che hanno a che fare con l’evoluzione della coscienza, temi più critici, più inclini a essere abbracciati dagli artisti, cercando di trovare un equilibrio tra tutti questi elementi.
Uno dei temi del progetto sarà proprio l’evoluzione della coscienza?
Stiamo parlando di una dimensione alternativa, di un nuovo mondo alternativo. Gli artisti con la loro pratica hanno da sempre parlato di trascendenza, hanno sempre ripensato il mondo e generato mondi completamente diversi a partire da quello reale, producendo a volte salti nello spazio e nel tempo verso il futuro e altre volte delle vere e proprie dimensioni parallele. Stiamo parlando del processo e della pratica dell’arte, niente di più. Dico niente di più perché poco di più si può fare, in qualche modo. Non mi riferisco alla ricerca di un singolo artista ma all’arte in senso più ampio. Questa dimensione nuova, alternativa, virtuale, ci permette di innestare su questo tema riflessioni sull’esistenza di un’altra dimensione. Stiamo parlando di trascendenza, sono temi propri dell’arte dalla notte dei tempi.
Però il tipo di tecnologia con cui andrai a lavorare ti può permettere di arrivare a dei risultati diversi da quelli di una scultura o di un’installazione ambientale.
Esattamente. La tecnologia ti permette di agganciare il visitatore, o “viewer”, in un processo differente rispetto a quello di una mostra. E, ripeto, a me piacerebbe tanto riuscire ad agganciare un pubblico più ampio, pur non essendo un contenuto pensato per l’intrattenimento, ma sicuramente ci sarà una parte che avverrà in una dimensione di gioco, ma dovrà essere in grado di permettere anche ad altri temi di essere veicolati. Questo sempre cercando di muovermi dicendoti il più possibile ma lasciandoci aperta la possibilità di andare chissà dove, perché da oggi a quando uscirà il progetto magari passeranno un anno e mezzo o anche due. Puoi immaginarti la quantità di cambiamenti e di evoluzioni che possono avvenire. È una dimensione tecnologica che si unisce a un’idea di spiritualità del tutto laica, al di fuori di qualsiasi territorio di credenze. Di spirito inteso come di non dipendenza totale solo dalla materia e dalle regole che la gestiscono.
Quindi se vediamo il progetto come la crescita di una pianta, in questa fase c’è l’analisi del terreno prima ancora della crescita vera e propria. Com’è composto questo terreno? Ti stai ispirando a qualcosa in particolare?
Ci sono tante cose che hanno a che fare con la capacità immaginifica mia, o degli artisti in generale. Stiamo costruendo dei paesaggi, sia in termini teorici che fisici, e ci sono tanti elementi che entrano in gioco. E questa è la declinazione più visiva. Sicuramente ci sarà un rapporto con il paesaggio, con l’idea di viaggio e di spostamento, proprio per sottolineare l’esistenza di una realtà alternativa a quella reale e la capacità di poter mutuare qualche cosa dal mondo reale, ma trasformandolo in un’esperienza totalmente diversa. C’è uno spostamento, un muoversi all’interno di questi paesaggi, la ricostruzione di un paesaggio alternativo, inevitabilmente distante da quello reale. Queste cose sono già in qualche modo chiare, ma come dici tu, il terreno che stiamo costruendo lo stiamo concimando con tante cose, bisogna ancora capire che cosa verrà fuori. La dimensione di interazione diretta del singolo user sarà fondamentale, la dimensione multiplayer e di community fondamentale altrettanto, così come l’idea di viaggio, sospensione e trascendenza, e la storia che stiamo scrivendo, che per me è la cosa più importante, ma che cascherà durante il percorso, e verrà assimilata e disvelata non attraverso il racconto ma tramite l’esperienza diretta. Questi sono gli elementi.
Mettendoli tutti assieme mi sembrano una totale inversione di quello che si è vissuto durante la Fase 1. Quanto ha influito fare le riunioni a distanza rispetto al trovarsi fisicamente per discutere del progetto?
Tantissimo. Abbiamo capito che non possiamo prescindere dalla tecnologia nel mondo in cui viviamo, e che anzi è un alleato importantissimo su cui dobbiamo lavorare, investire e fare evolvere. Al tempo stesso questa esperienza ci ha dimostrato quali e quanti siano i suoi limiti, per cui deve essere una dimensione sulla quale senzientemente cresciamo ed evolviamo, ma deve inevitabilmente coesistere con l’esperienza diretta e non può sostituirvisi. In modo particolare per l’arte. Infatti quello che stiamo facendo con questo progetto è creare qualcosa di alternativo, ma non potrà e non dovrà mai sostituire l’esperienza diretta, il rapporto con la realtà. Anzi, dovrebbe potenzialmente inverarlo, in qualche modo farti riflettere su quanto è importante quello che avviene in una dimensione virtuale e farlo scendere nella pratica della realtà. Devono diventare due elementi in osmosi, e in questi termini è veramente rivoluzionaria l’esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi perché, almeno nel mio caso specifico, ha delineato con chiarezza chi, come, dove e quanto sono importanti questi due pesi e quanto queste due cose non possono esistere solo come due binari paralleli ma devono costantemente intersecarsi nel rispetto di entrambi – che è la cosa più difficile, ovviamente.
Vorrei concludere riallacciandomi a una domanda riguardo agli artisti e all’uso dei big data che ti ha rivolto Carlo Pastore durante il panel La digital R-evolution di OGR Tech. Lui ha citato la frase di un imprenditore che sosteneva che gli artisti che avranno un peso sul futuro saranno quelli in grado di interpretare i big data, e tu gli hai risposto che in realtà questa è una cosa che gli artisti fanno da sempre.
Quello che ho detto credo che sia abbastanza comprensibile da qualsiasi persona che è un po’ vicina o co-tangente al mondo dell’arte. L’artista in quanto essere umano si è sempre posto di fronte alla realtà come a una possibilità. Diciamo che l’artista ha una capacità specifica, quella di captare qualche cosa, rendersi traduttore di un qualche cosa che ha una forma grezza, quindi il paragone con i big data, ed è in grado di intravedere in questa forma grezza un’identità, una forma completa, un’applicazione, una trasformazione. Per questo prima ti dicevo che l’artista si è sempre occupato di trascendenza, di produrre un qualche cosa di alternativo, che non esisteva prima, usando una materia e in certi casi trascendendola, sganciandocisi. Quando si parla di big data e della capacità di usarli e applicarli nella vita delle persone, non è molto diverso da quando un artista percepisce un’intensità, piuttosto che una problematicità espressa da una comunità, ed è in grado di formalizzarla magari con un segno, che ha un portato visivo, ma che non è nient’altro che la rappresentazione di quello che esiste già, e credo che l’artista abbia sempre fatto questo. La domanda che mi faceva Pastore era se per me gli artisti potrebbero essere in grado di tradurre i big data. Io credo di si, ma nella misura in cui è quello che hanno sempre fatto, cioè tradurre una esigenza, un’urgenza, in una forma nuova.
– Treti Galaxie
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