Fase Due (VIII). L’epilogo della finzione
“L’opera realmente contemporanea ti aggancia al presente in maniera immediata, istantanea, brutale – te lo fa vedere, te lo fa sentire – comprendi, a un livello profondo, come è fatto il tuo tempo, che sapore ha, che odore ha – ne capisci gli angoli, gli anfratti, gli interstizi, le zone nascoste – lo vedi come deve essere visto, e non come te lo propinano ogni giorno”. Christian Caliandro riflette su arte contemporanea e potere durante e dopo la Fase Due.
“Quando inizia una crisi è un po’ tutto concesso
Quasi come a Carnevale
Quando è in corso una crisi dimentico tutto
E posso farmi perdonare
So che rimarrò un po’ assente da scuola
E forse non andrei nemmeno al lavoro”.
Bluvertigo, La crisi
(in Zero-ovvero la famosa nevicata dell’85, 1999)
“È chiaro che, per dilatare il tempo, l’opera ha a disposizione almeno due strade: quella digitale, indicata dalla net.art e da molte delle pratiche che vanno sotto il nome un pochino confuso di post-internet; e quella di una fruizione dell’opera intima, domestica e/o comunitaria. Detto in parole povere: non tante, tantissime persone in uno spazio iper-concentrato (lo spazio espositivo), ma poche persone per volta, distribuite quindi nel tempo, che non consumano oggetti e contenuti (compresi ovviamente quelli relazionali) ma che vivono un’esperienza (l’opera) all’interno del proprio spazio quotidiano” (La crisi come opportunità. Cosa ci sta indicando il coronavirus?, “Artribune”, 7 marzo 2020).
A marzo e aprile, durante il lockdown, scrivevo che ci sono due strade per l’arte in questo momento, ‘digitale’ e ‘analogica’ (legata alla presenza fisica), e che una non esclude affatto l’altra. Anzi, esse sono perfettamente complementari. Ciò che è escluso – e deve essere escluso – è il ritorno al prima. Non si torna indietro. Alla fruizione protetta dell’opera, all’ambiente fintamente asettico, realmente esclusivo. Cioè, si può anche tentare il ritorno, il ripristino, ma è un’impresa inutile e decisamente poco interessante.
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Come funziona l’opera contemporanea? Che cosa la rende tale?
L’opera realmente contemporanea ti aggancia al presente in maniera immediata, istantanea, brutale – te lo fa vedere, te lo fa sentire – comprendi, a un livello profondo, come è fatto il tuo tempo, che sapore ha, che odore ha – ne capisci gli angoli, gli anfratti, gli interstizi, le zone nascoste – lo vedi come deve essere visto, e non come te lo propinano ogni giorno. Lo vedi al di là della propaganda, delle dichiarazioni ufficiali, delle manifestazioni mediatiche, dei contorcimenti retorici: l’opera contemporanea te lo fa vedere per quello che è, non per quello che vorrebbero fosse, o che per qualcuno dovrebbe essere. L’opera contemporanea è una funzionaria della verità. L’opera contemporanea serve a situarci con sicurezza nella nostra epoca, ed è indispensabile per immaginare e per costruire il futuro: “In simile agire è insita la diffidenza nel mantenimento, con la sua rigidezza e immobilità, del sistema dogmatico; si procede piuttosto per strappi e scossoni, per sovvertimenti e spaccature sempre scomode che servono a mettere in discussione la legittimazione di un culto monistico dell’arte. L’elemento di differenziazione è rappresentato dal diniego di affidare al trascendente e alla città celeste del dipingere e dello scolpire la soluzione delle contraddizioni dell’esistere. Ed è contro questo ‘carattere ecclesiale e autoritario del possesso della verità’ che interviene la critica degli iconoclasti e dei laici, interessati a non discriminare il dentro dal fuori per garantire un’osmosi e una cooperazione dialettica tra le parti. Ciò che è in gioco in questa ‘partitura aperta’, che non partecipa delle ‘correnti’, è l’induzione a ricercare, non un dialetto ma le condizioni di una nuova lingua” (Germano Celant, Un’arte iconoclasta [1984], in Arte dall’Italia, Feltrinelli, Milano 1988, p. 105).
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Occorre adesso che l’interesse pubblico generale (quello collettivo, comunitario, popolare) releghi l’interesse privato sullo sfondo. La dimensione collettiva – che riguarda ovviamente anche l’opera d’arte ‒ si traduce e si concretizza nella relazione con la comunità, e con il tessuto della vita quotidiana. (Con il suo tempospazio.)
Questa azione riguarda, ovviamente, anche il territorio dell’arte: il ruolo dell’artista, così come quello del curatore, si scoprono investiti da un cambiamento che però, se guardiamo bene, era già iniziato da un bel po’. Ho la sensazione che questo cambiamento abbia e avrà a che fare con una minore attenzione rivolta al “consumo” culturale e una maggiore concentrazione sull’esperienza ‒ e su una dimensione intima del rapporto con l’opera.
Una dimensione quindi domestica, casalinga, interiore – aspetto che non contraddice affatto il suo essere collettiva; ne è anzi il presupposto, la precondizione. Una dimensione strettamente legata al “fatto-in-casa”: fatto con quello che c’è, con gli ingredienti a disposizione. Non l’opera ideale, l’opera delle condizioni ideali quindi (a livello materiale e spirituale) ‒ ma l’opera reale e delle condizioni realistiche, l’opera incompleta, l’opera precaria. L’opera fragile.
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La finzione che deve venire meno, che sta venendo meno in questo periodo e che verrà meno, è anche quella relativa al “ruolo, al “potere” – e ai loro ammennicoli e ornamenti. Occupo una posizione, e quindi fingo autorevolezza (che non possiedo) per difendere meglio questa posizione, mi metto uno o due gradini più in alto degli altri in modo che essi possano vedere bene la mia posizione, il ruolo e la funzione che svolgo, la casella che occupo, e non dico non scrivo non faccio nulla che possa minimamente intaccare o mettere in discussione questa posizione acquisita, raggiunta, conquistata – e anzi faccio di tutto per accrescerla, per acquisire raggiungere conquistare ancora più potere, ancora più distanza tra me e gli altri…
Questa recita si chiama prevaricazione. E la vera distanza che nasce e si amplia è quella rispetto alla verità della ricerca e della conoscenza. Finzione e autenticità (originalità) ovviamente non vanno bene insieme.
“Much Madness is divinest Sense – / To a discerning Eye – / Much Sense – the starkest Madness – / ‘Tis the Majority / In this, as All, prevail – / Assent – and you are sane – / Demur – you’re straightway dangerous – / And handled with a Chain -” (“Molta follia è saggezza divina – / per un occhio che vede – / molta saggezza – è da manicomio – / ma sono i Più / che prevalgono in questo – come in tutto – / acconsenti – e sei sano – / mettiti contro – e sei pericoloso – / e t’incatenano in quattro e quattr’otto” (Emily Dickinson, Poesie, traduzione di Rina Sara Virgillito, Garzanti 2016, pp. 34-35).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Due (I). Niente è come prima
Fase Due (II). Il peso della insostenibilità
Fase Due (III). Il problema del disprezzo
Fase Due (IV). Il ritardo dell’arte contemporanea
Fase Due (V). Tempo di morire, tempo di vivere
Fase Due (VI). Tirare le fila
Fase Due (VII). Connessioni
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