Immaginare un museo: il nuovo MACRO di Luca Lo Pinto
Alessandra Mammì regala una serie di spunti per “leggere” la mostra appena inaugurata al MACRO di Roma, che dà il via a una nuova stagione espositiva sotto la guida di Luca Lo Pinto.
Sarà stato il Covid Time, il distanziamento di legge, il caldo di luglio, la luce del pomeriggio o il secco Editoriale in forma di mostra firmato da Luca Lo Pinto, ma l’effetto della visita al Museo dell’immaginazione preventiva è stato quello di aver visto il MACRO per la prima volta: uno spazio Frankenstein, un corpo disarmonico mai risolto neanche dalla fantasia punk della libertaria Odile Decq, corridoi che sembrano non portare da nessuna parte, l’antro dal cuore rosso che fa a pugni col grigio cortile triste e le scale spiraliformi dalle ringhiere eccessive. Per la prima volta ho davvero capito perché ogni precedente direttore aveva tentato di dissimulare con tecniche, poetiche e ideologie quel museo difficile e disarticolato, che ora invece si espone nudo e spigoloso sotto la rimbombante eco della voce di Lidia Mancinelli che recita frasi partorite dal surrealismo domestico di Marcello Maloberti.
Lo Pinto non ha rivestito niente, anzi con la complicità degli artisti ha sottolineato le asperità di questo museo. Non siamo consolati, né distratti. Siamo chiamati a guardare, a cercare, a rifiutare o accettare, a percorrere sentieri non facili, a sconfiggere il disagio perché l’immaginazione sia una conquista. O una sorpresa. Come nello scoprire il piccolissimo enigma fotografico di Trisha Donnelly che quasi annega nel buio di un cunicolo nero e cieco.
Eppure anche quel cunicolo è recuperato, digerito e metabolizzato in questo inizio di percorso che fino al 2022, ci dice il direttore, cercherà di rispondere alla difficilissima domanda “Cosa oggi rende possibile un museo?”.
Gli siamo grati nel non illuderci che la risposta sia a portata di mano. Gli siamo grati di non aver ceduto alla populistica promessa che questo possa essere luogo di entertainment giocoso come un acquapark. Gli siamo grati insomma nel vedere quanto oggi questo museo sia lontano dai proclami di ieri e della precedente gestione che promettevano creatività diffusa e un’infanzia dell’arte a cui ognuno poteva accedere grazie all’istinto e a primitive, innate doti. Non era vero, lo sapevamo, perché l’arte è pensiero, fatica e disciplina e non basta aprire le porte e offrire colori e dolciumi come nelle favole dei fratelli Grimm (che poi vanno sempre a finire male per gli ingenui bambini). Dunque torniamo al titolo di questo editoriale, “Cosa rende possibile un museo oggi?”. O, perlomeno, rispetto a quel che abbiamo visto, “cosa rende possibile che il MACRO sia un museo dell’oggi?”
MACRO: ISTRUZIONI PER L’USO
1) Partire dalla verità del luogo. E si è già detto.
2) Far parlare gli artisti. Esempio: attraverso documenti storico/politici come la minuta della lettera con cui Seth Siegelaub, curatore-gallerista-ricercatore nei lontani Anni Settanta, dettava le regole per una difesa legale dell’identità dell’opera e dell’artista; attraverso storie da riscoprire come la vita e militanza di Sister Corita, suora psichedelica, figura degna di leggenda nella California hippie; attraverso laboriosi e inventivi progetti come la macchina celibe di Philipp Fleischmann per catturare la fisicità dello spazio su una pellicola super8 e trasformarla in pigmento o la certosina pazienza di Luca Vitone nel raccogliere la polvere e farne materia ( e memoria) di un quadro; attraverso infine oneste e coraggiose interpretazioni del curatore/direttore che denuda una stanza per restituirci Il vuoto di Emilio Prini grazie all’etichetta originale e alla compagnia di una poesia di Valentino Zeichen.
3) Fondere memoria e visione futura, come nello scorrere di 1200 immagini dei 70mila negativi sulla Roma Anni Cinquanta e Sessanta conservati nell’archivio di Marcello Salustri, fotografo di Paese Sera. O nelle vecchie foto dell’attuale MACRO quando era ancora la Birreria Peroni, che ci portano a pensare quanto sarebbe stato meglio se l’avessimo lasciato così. O infine in quei depositi del museo (cubista composizione di opere, pluriball, etichette e casse), immortalati nel bianco e nero dall’obiettivo di Giovanna Silva e trasformati in una carta da parati destinata ora a vestire i muri della galleria più lunga e domani a diventare sfondo di nuove collezioni.
4) Affrontare l’interdisciplinarietà non come variazione sul tema di una mostra ma per ridefinirne limiti e confini. Usando per esempio il suono come protagonista dell’installazione (vedi la sala di Luigi Nono e Gastone Novelli, la dirompente e pirotecnica presenza di Lory D contro le silenti foto dei depositi della Silva, la demoniaca risata di De Dominicis); il film come testo teorico (per rispondere alla domanda fatidica sull’identità del museo ad esempio con il magnifico documentario Beaubourg di Rossellini nella sala cinema); la poesia come completamento dell’opera (il già citato Zeichen, ad esempio)
5) Sconfinare oltre le mura, fino ad arrivare al cielo addirittura. Dal 16 al 25 agosto ogni mattina un aereo sorvolerà il litorale tra Ladispoli e Anzio trascinando un banner con un’opera/ parola di Lawrence Weiner incastonata nei suoi iconici caratteri. SBRECCIATO; SPACCATO; OSTRUITO; AFFRONTATO; FRANTUMATO… lassù per incontrare anche chi mai verrebbe al museo, chi mai ha visto un’opera contemporanea, chi mai ha sentito parlare di MACRO… (e che non conoscendo Weiner, in tempi di emergenza Covid, potrebbe non prendere dal verso giusto il rombo di un aereo che sventola parole così criptiche. Magari, prima di gettare il panico, a questo aspetto bisognerebbe pensare).
IL FUTURO DEL MACRO
Sono queste le basi di un tentativo di immaginazione di un museo. Prologo di un palinsesto che ancora deve venire… Editoriale di una rivista ( per obbedire alla metafora cara a Lo Pinto) che quando uscirà (autunno, si spera) avrà rubriche e articoli, reportage e corsivi, pagine ricorrenti per fidelizzare il lettore /visitatore, che come ogni abbonato dovrà essere rassicurato su una linea editoriale coerente ma sorpreso ogni volta per quel che troverà, ogni volta che vorrà, perché il museo resta gratuito e aperto (fatte salve le norme sanitarie) a tutti, sempre. Come ogni museo sinceramente democratico, costruito per i cittadini e non abbandonato a se stesso in nome del popolo. Tanti auguri al nuovo MACRO.
‒ Alessandra Mammì
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati