Chiara Ferragni & lo scatto incriminato

Christian Caliandro approfondisce il “caso Ferragni” dopo la valanga di reazioni scatenate dalla sua visita agli Uffizi. E se il problema fosse una italianissima tendenza al paternalismo?

Com’è che era? Fino a qualche giorno fa i soloni italiani sui giornali e sui social affermavano con grande sicumera: “No, giovani e giovanissimi non andavano al museo, e certamente non ci andranno adesso che la Ferragni si è fatta il selfie agli Uffizi.” Eccaallà: grazie al famoso – o famigerato, a seconda dei punti di vista – selfie di Chiara Ferragni, da venerdì 17 a domenica 19 luglio sono entrati agli Uffizi 3600 tra bambini e ragazzi fino a 25 anni, contro i 2839 del weekend precedente (761 in più, pari al 27%).
Naturalmente, invece dello stupore ed eventualmente dell’ammirazione, o quantomeno dell’analisi spassionata, è ripartita la sarabanda delle recriminazioni (una delle specialità nazionali, come del resto il ‘benaltrismo’: “eh, ci vuole ben altro, signora mia!”): i giovani e giovanissimi che sono miracolosamente entrati al museo non sarebbero “pubblico consapevole”, non sono stati educati adeguatamente all’arte, ecc. ecc. A questo punto verrebbe da chiedere: quindi che dovevano fare alla biglietteria, rimandarli indietro? E come fai, o fate, a sapere che non erano “consapevoli”: gliel’avete chiesto? E quelli che vanno normalmente al museo, sono tutti tutti “consapevoli”, giusto? E come potremmo scoprirlo, magari propinando un test all’ingresso? E chi glielo fa questo esame? Diamo un voto alla fine, da presentare insieme al ticket per poter godere dei capolavori?
Dunque, ricapitolando: prima il problema era “ma il selfie non serve a niente, giovani e giovanissimi non andranno certo al museo per la Ferragni”; weekend, 3600 giovani e giovanissimi agli Uffizi, +27% rispetto alla settimana prima; adesso il problema è diventato “ma non sono consapevoli”, “solo sbigliettamento, solo numeri!”, “ma la questione è qualitativa…”, ecc. ecc. C’è un aspetto, in particolare, che non capisco: in che cosa esattamente il selfie della Ferragni inibisce o danneggia o sminuisce la “trasmissione critica dei contenuti” (che certo non può essere richiesta all’influencer: non è il suo ruolo: il suo ruolo è invece quello di portare 761 ragazzi in più al museo con un selfie – ripeto: con un selfie!!!), o la profondità dei suddetti contenuti? Come se le opere rinascimentali potessero essere ‘sporcate’ o delegittimate dalla presenza o dall’immagine di Chiara Ferragni. E qui già si coglie il riflesso di un tic tutto italiano, di origine non certo recente: la spiccata tendenza cioè della cultura, e del contesto culturale, al paternalismo e all’elitismo.

Chiara Ferragni al MARTA di Taranto con Eva Degl'Innocenti, direttrice del museo, e Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, courtesy MARTA

Chiara Ferragni al MARTA di Taranto con Eva Degl’Innocenti, direttrice del museo, e Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, courtesy MARTA

L’ITALIA E LA SOTTOCULTURA

Del resto, il nostro è l’unico Paese in cui “sottocultura” non vuol dire letteralmente “cultura che scorre sotterraneamente” rispetto alla dimensione istituzionale, ufficiale, commerciale (come altrove: subculture VS. mainstream), ma assume da decenni una connotazione spiccatamente negativa e spregiativa, arrivando a designare una “subcultura” nel senso di cultura subnormale, ignorante, maleducata, inammissibile, irricevibile (di fatto, una non-cultura). Qualcosa questo vorrà pur dire – oltre ad averci ovviamente privato, a livello di psiche e di memoria collettiva, di quelle che sarebbero state le nostre sottoculture legittime, cioè le basi riverite e venerate di un eventuale presente italiano alternativo (vale a dire, per esempio: la commedia italiana tarda, quella amara e crudele degli Anni Settanta per intenderci; Il Male e Frigidaire; il fumetto; Tondelli, Palandri, Nove, Brizzi; la nostra psichedelia Anni Settanta e il nostro punk Anni Ottanta; il nostro magnifico rock Anni Novanta, dai Bluvertigo ai Verdena, dai Massimo Volume agli Afterhours ai CSI, e l’hip-hop dello stesso decennio, dai Colle der Fomento ai Sangue Misto, dai 99 Posse al Piotta, dagli Articolo 31 – il brano del 1996 2030 è una profezia che riguarda l’oggi ‒ a Frankie Hi-Nrg, insieme alla nostra importante pittura anni Novanta; e altro).

Chiara Ferragni nella Basilica di Santa Caterina d'Alessandria a Galatina, fonte Instagram

Chiara Ferragni nella Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, fonte Instagram

CULTURA ALTA E CULTURA BASSA

E poi, e poi. Salta fuori regolarmente – come una maledetta pianta urticante – questa distinzione tra “cultura alta” e “cultura bassa” che io non comprendevo quando ero piccolo, e comprendo ancora meno oggi che piccolo non sono più. Personalmente, ho sempre distinto al massimo tra opere interessanti e opere non interessanti, tra opere rilevanti e opere irrilevanti (sia dischi, sia libri, sia film, sia opere d’arte visive): ma di sicuro è un mio problema.
A questo proposito, faccio solo un piccolissimo esempio, che peraltro racconto da circa vent’anni. Nel 1992, a tredici anni, scoprii per caso On the Road di Jack Kerouac grazie a un fugace riferimento di Kurt Cobain inserito in un trafiletto (un trafiletto!) sulla Gazzetta del Mezzogiorno dedicato ai Nirvana. Da allora, Kerouac è uno dei miei scrittori preferiti, forse il mio preferito in assoluto, e la sua intera opera mi ha influenzato e mi influenza tutt’oggi in modi che non posso neanche descrivere o comprendere appieno. Ma forse Kurt Cobain, i Nirvana e la Gazzetta del Mezzogiorno non erano mediatori abbastanza autorevoli per trasmettermi la letteratura di Kerouac e della beat generation; forse ho fatto male a precipitarmi alla Libreria Laterza di via Sparano a Bari, subito dopo aver letto quel trafiletto, per comprare On the Road
Infine, non userei – come pure ho visto fare – termini spregiativi o squalificanti per definire una giovane donna di 33 anni che fa l’imprenditrice e la blogger con discreti risultati: nel 2009 infatti ha creato il blog The Blonde Salad; nel 2013 ha progettato una collezione di scarpe con Steve Madden; nel 2014 è stata la prima fashion blogger a comparire sulla copertina di Vogue; nel 2016 è diventata global ambassador di Pantene, testimonial di Amazon moda e ha posato per l’edizione americana di Vanity Fair, oltre a essere inserita nella lista 30 Under 30 Europe: The Arts da Forbes e ad avere una propria versione Barbie prodotta dalla Mattel; nel 2017 è stata nominata, sempre da Forbes, “l’influencer di moda più importante del mondo” (sic) ed è stata scelta da Swarowski come testimonial della collezione natalizia; nel 2018 è diventata testimonial di Pomellato e di Intimissimi; nel 2019 è stata protagonista di un documentario; ha attualmente 20,5 milioni di follower su Instagram.
Uno poi, come al solito, può dire “non mi piace, non mi interessa”: ma tentare di sminuirla sa un tantino di sessismo.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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