L’inferno innocente di Bolzanodanza
Mentre tutti o quasi si faranno tentare dal far finta di niente, Bolzanodanza risponde alle incertezze sulla danza post-Covid con la più estrema spettatorialità. Tre assoli inediti, molto ben riusciti ed eseguiti, per un unico spettatore riconsegnato a se stesso in un teatro, tra platea e galleria, tutto vuoto.
A Lugano un intero quartiere si chiama Paradiso. Pare ci fosse, una volta, il cimitero. La proverbiale scaramanzia dei ticinesi, “che non nominano mai il diavolo per paura di chiamarlo lì” (lo scrive Arbasino in Fratelli d’Italia), ha riconvertito nello scongiuro nominale il terrore per il maleficio che lo sottintende. Gli autobus che ci vanno con l’intestazione elisia in fronte sembrano coronati proprio come un carro funebre. Lo spaccio del bene è ricatto agli inconsapevoli, se non proprio oppio per gli stupidi; ma bestia rara ai meno trionfanti. In realtà si tratta di una zona residenziale di gran lusso. La merce promette sempre al consumatore la sua redenzione. Purché rinviata, sempre posticipata.
L’INFERNO INNOCENTE
Si chiama Eden, ma è invece un inferno innocente, il programma del festival Bolzanodanza. Comprende unicamente tre inediti ma brevi assoli commissionati rispettivamente a Rachid Ouramdame, Michele Di Stefano e Carolyn Carlson. I numerosi interpreti previsti in alternanza dal programma (un solo spettatore alla volta per un unico assolo alla volta) si danno continuamente il cambio in un notevole numero di repliche (più di 200!): un mini vortice che però ha rimesso in moto una macchina che si credeva, quest’anno, dovesse rimanere spenta.
Un solo spettatore per volta, dunque, è accompagnato da un Caronte di turno all’interno del teatro, tra platea e galleria, tutto vuoto. Il percorso è congeniato come in analisi: non si incontra mai il precedente né il successivo. Si entra lateralmente perché il vuoto dello spazio sia convenuto, e si esce centralmente per approdare in sosta in un foyer-giardino, un po’ istantaneo e un po’ tirato su, per eventualmente defatigare.
Il meccanismo sembra tra i più facili e scontati. Un trionfo delle disposizioni governative sul distanziamento e le precauzioni sanitarie, circondato di verdura. Vero per niente. Il contingente che è capace di fare tesoro del suo limite, si trasforma sùbito in un’inedita e tanto più precisa esperienza di autocoscienza. Lo spettatore unico, privilegiatissimo ma anche orfano perché estromesso dalla sua comunità, è costretto a fare un po’ tutto da sé. Nel rischio che il buio, invece di proteggere, in realtà esponga e colpisca benissimo chi di solito assiste ben nascosto e invisibile. Così questo unico spettatore a cui tutto è dato, ma anche tolto, resta seduto in platea come forse un trapassato in attesa di giudizio. Oppure proprio come un sopravvissuto che deve, ora, negoziare ex-novo la ragione della sua presenza e del suo sguardo spudorato sulle cose della scena. Osserva l’eden da una soglia solitaria che è inferno, ma innocente perché senza colpe da espiare né giudizî da affrontare. È la sua più vera condizione, ed è forse il modo migliore per nominare, accettandola senza rimuoverla, l’esperienza pandemica appena trascorsa, senza promesse, false e inutili per quanto lussuose, di nuovi paradisi.
I TRE ASSOLO
Allora è la casualità dell’ordine con cui si assiste ai tre assoli e degli interpreti designati nel tempo della propria prenotazione a rendere unica la visione, che è trina. Il primo visto è quello straordinario di Rachid Ouramdame nel corpo di Annie Hanauer. Questa meravigliosa interprete, già incontrata nel repertorio di Trisha Brown con Candoco, sembra vivere di una luce propria mentre abbraccia lo spazio in un movimento concentrico sulle note straziate (e ricattatorie) del famoso adagio per archi di Samuel Barber. Come dopo una tempesta, l’emozione infatti non si tiene: l’intensità dell’effetto sembra avere una impressionante nettezza, e la sensuale fluidità dell’interprete ricrea in scena la tensione misteriosa di un piacere imminente.
Il secondo è quello di Michele Di Stefano nel corpo di Laura Scarpini. Geniale nella sua apparente semplicità, è qui l’uso dello spazio: al sipario che si apre, lentamente si aggiungono a cascata le quinte laterali, da proscenio al fondo, in un movimento progressivo che riapre, proprio mentre lo chiude, il palcoscenico. Un intero nuovo teatro si costruisce sotto gli occhi dello spettatore e lo sguardo catturato e connesso della performer. Qui la relazione è decisiva: Scarpini non perde quasi mai di vista lo spettatore di turno, sulle note di You & I di Jeff Buckley. Questa danza ad personam è anche un gioco, a tratti leggero e spensierato, perché non ammette drammi. Lo spirito teatrale agisce però fortemente, affinché l’idea della relazione tra scena e pubblico intervenga in modo esplicito. Non si va da nessuna parte da soli, quindi è meglio negoziare fin da sùbito le condizioni del nostro stare insieme, di nuovo.
Infine, l’eden secondo Carolyn Carlson, nel corpo di Riccardo Meneghini, in una solare e dinamica risalita alle proprie “fonti spirituali”. Tanta ambizione (e tensione, e rivelazione, ed epifania) fa da sfondo vivissimo alle contrazioni e ai ritmi anche velocissimi, subito indimenticabili, del danzatore. Il risveglio eventuale procede dalla coscienza di un mondo già sottosopra (e sarà quello della pandemia), ma ai più diffidenti che però amano Carlson soltanto basterà la forza immanente di questo corpo che si accompagna, e che poi è capace di indossare, il fardello dell’altro. Ed è infine proprio questa la consegna più vera: nel nostro tempo senza eden abbiamo imparato a fare a meno di tutto, anche degli scongiuri e dei ricatti della paura, ma non degli occhi aperti dell’altro.
– Stefano Tomassini
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