Trisha Baga a Milano: l’ineludibile mescolanza di linguaggi
Con videoinstallazioni e manufatti, all'HangarBicocca l'artista americana di origini filippine allestisce una rappresentazione della nostra epoca. Influenzata dalle tecnologie, dal mainstream e da linguaggi antilineari.
La mescolanza è il tratto saliente del nostro immaginario, sembra dirci la rappresentazione della nostra epoca fornita da Trisha Baga (Venice, Florida, 1985) con la sua personale nello spazio Shed di HangarBicocca a Milano. Non mescolanza nel senso di un fecondo melting pot ma un caotico, forsennato mix di cultura alta (poca), popolare e soprattutto tecnologia.
Costruita come una grande installazione complessiva che riunisce diverse opere, la mostra ha la forma di un museo disperso e dissennato, sospeso fra tecniche classiche come la ceramica, ritrovati tecnologici, slanci onirici e trivialità “pop”. Un’esposizione non facilmente leggibile, sospesa tra grande dispendio di energia produttiva e atmosfera lo-fi, che trova forse i suoi momenti più felici nelle proposte in apparenza più semplici.
GLI STIMOLI PARASSITI DI TRISHA BAGA
Tra le grandi videoinstallazioni spiccano in effetti le ceramiche: dopo un gruppo di barboncini-sfingi, sfila un campionario di oggetti quotidiani fossilizzati, grumi di materia che sfiorano l’astrazione ma evocano la corporalità, personaggi come Ru Paul e Elvis Presley con dispositivo Alexa incorporato. Alle pareti, una proiezione di immagini fisse ricorda ironicamente e per contrasto ciò che, per tradizione, si suppone debba invece essere un museo: un concerto di reperti classificati e organizzati secondo uno schema predefinito e una consequenzialità.
Il posto principale in mostra è però lasciato alla produzione video dell’artista. Immagini sovrapposte, di qualità visiva volutamente bassa anche quando realizzate con mezzi aggiornati, si succedono e si sovrappongono sullo schermo. Come se si trattasse di documentari o reportage amatoriali, interrotti da stimoli parassiti riguardanti l’estetica preconfezionata del mainstream.
IN CONTROLUCE IN HANGARBICOCCA
Il punto centrale è in definitiva l’influenza dei mezzi tecnologici e di Internet con la loro logica sparsa. Il loro imperio spunta immancabilmente “in controluce” in ognuna delle immagini proiettate. Impossibile uscirne, sembrano dire i video: ogni immagine, qualunque grana possieda, è aleatoria, virtuale, patinata anche se sporca, aleggiante come un fantasma. E l’ambientazione delle videoinstallazioni, circondate da oggetti di recupero o d’arredo, aggiunge un ulteriore tocco di ambiguità tra reale e virtuale, concreto e ologrammatico.
La mostra stessa sembra perdere di compattezza man mano che la si percorre, si sfilaccia in mano al visitatore e smorza gli spunti narrativi che sembra introdurre. E diventa impossibile capire quanto questo sia un difetto oppure una dose di freddezza voluta e programmata, per rispecchiare un’epoca spersonalizzata proprio perché sovraccarica di stimoli.
– Stefano Castelli
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