Gli organizzatori non riconoscono la sua nazionalità. Halilaj abbandona la Biennale di Belgrado
Quando ha accettato di parteciparvi pensava che potesse essere un modo per aprire un dialogo in una situazione politicamente tesa, ma non è andata a finire come sperato. La lettera aperta di Petrit Halilaj dopo l’incidente diplomatico della Biennale di Belgrado.
Il kosovaro Petrit Halilaj viene invitato nel 2019 dai curatori Ilaria Marotta e Andrea Baccin a partecipare alla Biennale di Belgrado, prevista per ottobre 2020 presso il KCB – Cultural Centre of Belgrade, alla 58esima edizione. L’artista decide di parteciparvi, conscio delle tensioni politiche che non si sono mai placate tra il Kosovo, provincia autonoma della Serbia autoproclamatosi indipendente nel 2008, e la Serbia, di cui Belgrado è capitale, che non ne ha mai accettato l’autonomia. Un conflitto sfociato nella sanguinosa guerra del Kosovo del 1998 e 1999, combattuta tra le due nazioni, in cui lo stesso Halilaj è stato coinvolto: sfollato e costretto a vivere per oltre due anni in un campo profughi, fu privato anche dei suoi documenti, distrutti dai persecutori. Halilaj per la Biennale di Belgrado, intitolata The dreamers, aveva proposto il video Shkrepetima (“scintilla” in albanese), la documentazione di una performance teatrale avvenuta nel 2018 tra le rovine della Casa della Cultura di Runik, in Kosovo.
PETRIT HALILAJ SI RITIRA DALLA BIENNALE DI BELGRADO
I rapporti tra l’artista e gli organizzatori della manifestazione si deteriorano già da maggio 2020, quando la Biennale elabora un documento in cui accanto al suo nome compare, oltre alla città di nascita, Kosterc, uno spazio vuoto. Il Kosovo non viene nemmeno menzionato. Supponendo che si tratti di un errore, Halilaj chiede una rettifica che viene applicata, aggiungendo “*Kosovo”, con un asterisco. Quell’asterisco è la goccia che fa traboccare il vaso, considerata dall’artista come il palese ed ennesimo rifiuto da parte della Serbia di riconoscere il Kosovo come stato indipendente e, di conseguenza, la propria identità. Decide di prendere una decisione drastica, abbandonando la biennale. In seguito, pubblica una lettera aperta – dal titolo Give us back our stars, ovvero Ridacci indietro le nostre stelle – in cui descrive dettagliatamente la vicenda, ed esprime alcune considerazioni circa il ruolo di responsabilità che l’arte dovrebbe avere verso le culture dei popoli. In tutta questa vicenda, ha dichiarato che i curatori Ilaria Marotta e Andrea Baccin non abbiano avuto voce in capitolo, mentre la responsabilità ricade sullo staff del KCB – Cultural Centre of Belgrade, che si è giustificato affermando di essere tenuto, in quanto istituzione pubblica, a seguire la politica ufficiale della Serbia sul Kosovo.
LA LETTERA APERTA DI PETRIT HALILAJ VERSO LA BIENNALE DI BELGRADO
“Nel 2019 sono stato invitato da Ilaria Marotta e Andrea Baccin per prendere parte al 58 ° Salone – Biennale di Belgrado, intitolato The Dreamers, organizzato e ospitato dal Centro Culturale di Belgrado (KCB) e inaugurato nell’ottobre 2020. Ero entusiasta di collaborare con e di recarmi a Belgrado per la prima volta come artista kosovaro. Avrei esposto la video documentazione Shkrepëtima, uno spettacolo teatrale messo in scena a Runik (la città in cui sono cresciuto in Kosovo e il sito di uno dei primi insediamenti neolitici nella regione) tra le rovine della casa della cultura di Runik, un simbolo dell’identità multietnica locale che è stata chiusa, svuotata e abbandonata quando la situazione politica con la Serbia si è deteriorata negli anni ’90”, inizia così la lettera di Petrit Halilaj, partito con le migliori prospettive in merito alla partecipazione alla biennale serba. “Volevo superare la dicotomia tra “noi” e “loro”, tra “bene” e “male”, per aprire finalmente uno spazio di discussione condiviso invece di allargare una divisione che ha già forgiato così tanto odio. Ero ottimista sul fatto che un’istituzione artistica sarebbe stata uno spazio in grado di rappresentare una pluralità di identità, alla fine anche prendendo una posizione al di là della politica ufficiale intorno al mio paese di origine, chiamandola semplicemente con il suo nome: Kosovo. Il concetto di The Dreamers, così come l’intenzione dei curatori di trascendere le divisioni nazionali con questo progetto, aveva incrementato la mia speranza. Purtroppo mi sono trovato di fronte a una realtà radicalmente diversa. Con questa lettera voglio lasciare una traccia di ciò che ho vissuto negli ultimi mesi e di ciò che ha portato al mio ritiro a giugno. Questo è il mio lato della storia, ovviamente, e so che ci sono altri punti di vista che dovrebbero essere presi in considerazione. Da parte mia, lo sto rendendo pubblico perché un ritiro silenzioso aggiungerebbe un altro livello di impotenza al silenzio che ho sperimentato durante questo processo, al silenzio e alla cancellazione di ricordi ed esperienze che attraversano la storia. Spero invece di generare qualche discussione sui limiti della politica nelle istituzioni d’arte finanziate dal governo e situate in paesi che continuano a perseguire politiche nazionalistiche e oppressive; sul potenziale del sogno attraverso pratiche artistiche quando lo spazio espositivo diventa una cornice che delinea i limiti dell’identità dell’artista, e quindi del sogno stesso; e più in generale, sull’attuale situazione politica tra Serbia e Kosovo”. E prosegue, interrogandosi sulla funzione dell’arte e delle istituzioni: “voglio credere che l’arte abbia un potenziale trasformativo. Questa convinzione è anche una delle ragioni per cui ho dedicato la mia vita ad essa. Ma questa esperienza pone le domande: qual è la reale capacità di sognare delle istituzioni d’arte e qual è lo spazio che sono disposte a dare agli artisti per sognare? E se agli artisti viene data una cornice specifica per i loro sogni, una cornice che è delineata e monitorata dal potere e dalla politica dominanti, allora fino a che punto possiamo andare?”. Conclude, infine, con una notizia: “Questa lettera è il risultato di settimane di scambi, brainstorming e discussioni con collaboratori, colleghi, colleghi e amici, di cui sono molto grato. Sono particolarmente grato a David Horvitz che prenderà parte alla Biennale di Belgrado e ha proposto di modificare il suo lavoro con “Give us back stars” dopo il mio ritiro. In questo gesto, vedo un importante segno di solidarietà e guarigione. Uno di quei segni che danno speranza”.
LA RISPOSTA DEI CURATORI
Dal loro canto, i curatori della Biennale di Belgrado Andrea Baccin e Ilaria Marotta non sono rimasti a guardare, consci delle gravi implicazioni politiche e sociali che l’intera vicenda ha assunto. E hanno diramato una lunga lettera nella quale, a loro volta, invitano il mondo dell’arte ad aprire una riflessione sul potere di superamento dei confini – geografici, politici, religiosi, di razza o di genere che l’arte stessa è in grado di avere. “Se crediamo al potere trasformativo dell’arte, è qui che il lavoro di Petrit Halilaj avrebbe avuto veramente un senso. Sarebbe stato importante altresì perché in una città come Belgrado l’arte non è ciò che è diventata nei paesi in cui viviamo – socialità, status- symbol, potere, mercato – ma è un baluardo di libertà e di confronto attraverso cui favorire un dibattito che vada oltre la politica, in quell’ambito di espressione che l’arte a tutti i livelli rappresenta. Ed è proprio in tale contesto che il Cultural Center di Belgrado rappresenta un avamposto di resistenza culturale, producendo quattro mostre al mese nelle quattro gallerie del centro, e animando il cuore vitale della comunità di Belgrado, con ampia e sentita partecipazione di pubblico“, affermano nella parte finale del testo. E proseguono, “è vero la Serbia non riconosce il Kosovo come nazione indipendente, insieme ad altri 96 paesi dei 193 membri delle Nazione Unite, tra queste Spagna, Grecia, Romania… Ma se non pensiamo che l’arte possa andare oltre i limiti geografici, politici, di genere, di razza e di religione allora tutti dovremmo interrogarci sul nostro fallimento. Che non è un fallimento personale o professionale, non è il fallimento di una mostra, di un’istituzione, o di un caso specifico ma è un fallimento strutturale. L’omissione dei paesi d’origine, sebbene abbia tolto qualcosa alla complessità delle voci in campo, è stata una decisione discussa e condivisa, non successiva bensì precedente il ritiro di Petrit Halilaj e non legata alla sua assenza ma alla volontà di una sua real presence, tanto da essere mantenuta anche dopo, a sottolineare una traccia, un
passaggio, un possibile dialogo futuro, in linea con l’idea della mostra dove i dreamers
diventano gli abitanti della ‘zona di passaggio’ che Walter Benjamin definiva ‘soglia’,
distinguendola dall’idea di ‘confine’ “.
-Giulia Ronchi
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