Teatro. Il risveglio da un incubo, freddo come una specie di Alaska
A partire dalle testimonianze che il neuropsichiatra Oliver Sacks raccolse in Risvegli, Harold Pinter scrisse un dramma duro come una relazione scientifica e struggente come un mélo. Valerio Binasco dirige il brutale e commovente ritorno alla vita di una ragazza rimasta in uno stato di torpore per trent’anni.
Si è addormentata che era un’adolescente, e ora, dopo ventinove anni di totale assenza di coscienza per coma letargico, si risveglia adulta, già donna. Un sonno lungo quasi una vita, causato da una malattia che l’ha inchiodata in un letto d’ospedale assistita da un medico e dalla visita giornaliera della sorella, entrambi anche marito e moglie.
I RISVEGLI DI OLIVER SACKS
Ispirandosi al celebre saggio Risvegli di Oliver Sacks in cui il noto neuropsichiatra racconta le esperienze dei suoi pazienti affetti da encefalite letargica – una misteriosa epidemia neuropatica diffusasi per dieci terribili anni, dal 1917 al 1927, e conclusa solo nel 1969 grazie all’invenzione del farmaco L.dopa –, il drammaturgo Harold Pinter prende la vicenda umana di questo caso clinico per farne, nel 1982, un pièce teatrale. Testo tra i meno conosciuti e rappresentati in Italia del Nobel inglese, Una specie di Alaska è stato già trasposto in scena, alcuni anni fa, da Valerio Binasco, e ora riproposto dal regista in una nuova messinscena al Teatro Carignano per lo Stabile di Torino e Tpe nell’ambito di Summer plays, rassegna che ha coraggiosamente dato un segnale forte di ripartenza dello spettacolo dal vivo dopo il lockdown imposto dal Coronavirus.
AMBIENTAZIONE: UNA STANZA D’OSPEDALE
L’ambientazione è una fredda stanza d’ospedale – luogo così presente in questi lunghi mesi che hanno segnato la vita di tante persone per la nuova pandemia di questo nostro secolo che stiamo ancora vivendo.
La stanza è uno dei luoghi fondamentali della drammaturgia pinteriana. Un luogo chiuso, impermeabile all’esterno, talvolta assediato da misteriose presenze. Qui la vita di fuori può bussare ossessivamente assumendo talvolta l’identità di un regolamento di conti. Ed è quello che succede in questa stanza d’ospedale: una scena minimalista con un tavolo, un comodino, due sedie e una parete trasparente dietro il grande letto metallico dove la protagonista, Deborah, si risveglia dal decennale torpore. Unico suono il leggero ticchettio di un orologio che scandisce la recitazione e la vita. È tutto giocato su lievi movimenti di vicinanza e distanza, con il dottor Hornby, e poi anche la sorella Pauline, che si alza la mascherina sul viso nei momenti in cui si avvicina alla paziente. Un gesto quanto mai realistico entrato ormai nella nostra quotidianità che ci fa sentire ancora più dentro quella stanza, partecipi anche noi di una situazione intima, e dello svelamento che avverrà.
Tocca al dottore gestire la graduale verità dello stato della donna, convinta, al risveglio, di doversi preparare per andare alla festa del suo compleanno e di indossare il vestito che la madre le ha preparato per i suoi quindici anni. Spetta a lui doverle rivelare, il meno traumaticamente possibile, quanto accaduto, la sua nuova condizione fisica e mentale, aiutarla ad accettarla, ricostruire la realtà, riconnettere il passato con il nuovo presente. “Il tuo cervello non ha subito nessun danno“, le spiega. “È rimasto come sospeso, ha deciso di andare ad abitare per un po’ in un luogo lontano, freddo e bianco… in una specie di Alaska”. Nello smarrimento che vivrà cercando le sue cose e i suoi affetti; nella fatica di comprendere quanto successo, e non accettare la realtà, la donna si “specchierà” nel corpo e nel volto della sorella più giovane di lei – anch’essa diventata adulta – che farà fatica a riconoscere e ammettere che non è una qualsiasi sconosciuta come inizialmente aveva pensato.
UN TRIO PERFETTO
Sara Bertelà, Nicola Pannelli e Orietta Notari diretti da Binasco, è un trio di attori perfetto per questa messinscena, con al centro Bertelà dallo sguardo inizialmente intrepido e irrequieto, poi angosciato e smarrito, che riflette un mondo estraneo, svuotato di presenze e di ricordi, con il tempo perduto per sempre che legge a sua volta nello sguardo degli altri.
Scrive Binasco nelle ultime note di regia: “Alla sorella Pauline e al dottor Hornbynon non rimane che lasciarsi guardare da quegli occhi, come se non potessero far altro che offrire a Deborah un’inconscia vergogna per il loro essere vissuti in uno stato di veglia che è appena appena più cosciente del suo. Sono sopravvissuti alla vita tutti e tre, e ora li aspetta la vecchiaia, la fine del tempo. Il tempo che accelera il suo ballo mano a mano che la vita rallenta“.
– Giuseppe Distefano
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