Social media come letteratura espansa. L’opinione del filosofo Emanuele Coccia
All’indomani del lockdown, il filosofo Emanuele Coccia riflette sulle potenzialità dei social media e sulle loro possibili declinazioni future. Tra soggettività, letteratura e nuovi sguardi sul reale.
Da un giorno all’altro la città è diventata fuorilegge: impossibile attraversarla se non a orari precisi, con scopi precisi (comprare cibo soprattutto) e per brevissimi lassi di tempi. Da un giorno all’altro vedere persone, abbracciarle, parlarci, baciarle, amarle è diventato fuorilegge.
L’ACCIDENTE EPIDEMIOLOGICO
Murate in casa, noi, nuove anacorete dello spirito – donne e uomini di un secolo che ha fatto dell’epiteto “social” la propria marca distintiva – abbiamo dovuto inventare una nuova vita. Murate in casa, abbiamo trasformato quei corridoi virtuali che sono i social media – Facebook, Instagram, Zoom, che nella vita precedente servivano soprattutto a rendere meno distinti spazi e tempi reali – in enormi soggiorni in cui liberare la nostra vita sentimentale e intellettuale. Improvvisamente strumenti secondari di comunicazione, dedicati soprattutto all’intrattenimento privato, sono diventati i teatri di tutta la nostra vita politica e culturale: i musei, le gallerie, le tv, le sale di concerto, i negozi, le università, le discoteche, tutto si è trasferito in questo spazio, e proprio per questo tutto ha assunto la stessa, identica forma.
Per un accidente epidemiolgico, l’unità profonda che lega qualsiasi manifestazione culturale, politica e affettiva in una data società è diventata fatto visibile. La separazione fisica, retorica e architettonica che separava un concerto da una lezione, una conversazione privata da una dichiarazione pubblica è scomparsa. Le forme simboliche ed emotive hanno potuto coincidere e mostrare che sono tutte espressione di una medesima realtà. È stato assieme bello e strano: pochissime sanno vivere, muoversi, parlare, amare in questi spazi, pochissime sopportano la contiguità e l’interpenetrazione tra fenomeni e manifestazioni di solito rigorosamente ed ermeticamente separati.
“La vita diventa una serie di auto-fiction che servono a diventare ciò che si è”.
D’altra parte, la realtà stessa di quanto abbiamo chiamato con profondo snobismo culturale “social media” ha finalmente mostrato la sua natura e la sua insospettata potenza. Ed è su questo punto che vorrei insistere: il futuro delle nostre città e soprattutto il futuro della nostra cultura dipenderà da se e come riusciremo ad appropriarci di questi spazi, o meglio di queste macchine. Tutto dipenderà dalla nostra capacità di cogliere, prolungare, radicalizzare l’identità tra tutto quello che la cultura del passato ha voluto separare fisicamente, retoricamente e socialmente. Tutto dipenderà dalla nostra capacità di non trascurare questi spazi e non farli diventare quello che spesso diventano con una rapidità impressionante, enormi pattumiere culturali a cielo aperto che accolgono quello che la cultura, la politica, la società non riesce più ad accogliere nei canali tradizionali, nei palazzi, nelle piazze, nelle aule. Tutto dipenderà dalla capacità di comprendere davvero cosa sono questi enormi corridoi.
La loro nascita, in realtà, è il risultato di una trasformazione radicale della natura e dello scopo della tecnologia e delle macchine che ci circondano: siamo passati da una tecnologia il cui scopo era la realizzazione di compiti fisici a macchine il cui compito è l’estensione, la moltiplicazione e l’esplosione dello psichismo umano. Questa evoluzione è stata male interpretata a causa dell’egemonia della metafora e del vocabolario cognitivo o cibernetico che ci hanno portato a parlare solo di cervello, intelligenza, pensiero: un’antropologia estremamente rozza che vorrebbe dividere la psiche in diverse sfere, l’intelligenza dal resto della facoltà soggettiva, e mettere la sede dell’intelligenza nel cervello ci fa vedere computer e telefonini come delle estensioni del nostro cervello e non, molto più profondamente, come forme espanse della nostra vita psichica.
MACCHINE PSICOMORFE
Eppure quello che è successo nell’ultimo centinaio di anni è molto chiaro. La macchina tradizionale si basava sull’imitazione dell’organismo fisico: secondo la tesi di Ernst Kapp, ogni macchina è la proiezione di un organo anatomico al di fuori del corpo umano. Le nuove macchine si basano sull’imitazione della vita psichica, e non importa se si tratta di intelligenza, calcolo, immaginazione, sentimento ecc. La fotografia, il cinema, il computer, ma soprattutto i telefoni cellulari ne sono un esempio. Proiettano la psiche fuori dalla coscienza e dall’anatomia umana. E se le macchine tradizionali permettevano di far vivere una forza orientata verso un obiettivo, esercitato soggettivamente, che era propria dei corpi viventi al di fuori di noi, le nuove macchine fanno esistere l’anima al di fuori di noi, fanno della vita psichica un tratto che può abitare non solo l’anatomia umana, ma può insediarsi in qualsiasi oggetto e soprattutto può prendere vita in qualsiasi momento. È a causa di questa moltiplicazione delle macchine “psicomorfe” che le immagini sono ovunque: l’immagine è la presenza puntuale della psiche.
Lo sviluppo di queste nuove tecnologie ha risposto a una profonda esigenza antropologica, morale e politica: l’invenzione dei computer, e soprattutto dei telefoni cellulari, e delle tecnologie che ne fanno una piattaforma di costruzione collettiva e di condivisione dell’intimità, non è una coincidenza frutto di poche scoperte contingenti, ma una costruzione consapevole che si sviluppa a partire da una Kunstwollen, una volontà artistica e antropologica molto precisa. Tutte queste macchine sono infatti forme simboliche che rispondono a esigenze morali: la costruzione del soggetto.
L’ARTE E L’IO NEL ‘900
È dalla scoperta di Schiller che la soggettività non può essere colta né come pura realtà di conoscenza (quindi come fatto puramente cognitivo) né come puro fatto di morale (come atto arbitrario della volontà), ma esiste nella sfera intermedia, quella del gioco e dell’arte, dove conoscenza e volontà, scienza e morale si indeterminano l’una nell’altra, che l’arte è diventata non solo lo spazio della costruzione del bello decorativo (o della costruzione di un comune non-normativo, come era in Kant) ma il laboratorio privato della costruzione del soggetto.
Per quasi un secolo, abbiamo chiesto incessantemente alla letteratura e alle arti visive e plastiche di costruire e rendere visibile la struttura del nostro io: sono stati i romanzi e le opere d’arte a farci capire la strana forma che la nostra vita psichica e sentimentale sembrava aver assunto. In tutto il Novecento l’io è stato il luogo e il mezzo attraverso cui ciascuno di noi poteva fare esperienza, in modo epifanico – cioè istantaneo, incontrollabile e non programmabile –, della propria appartenenza a un flusso psichico più antico dei propri ricordi coscienti e più ampio della propria personalità. L’Ulysses di Joyce e Mrs Dalloway di Woolf, la Recherche di Proust e l’action painting di Pollock non erano che esercizi per rendere possibile all’io di strutturarsi in questo modo.
“Il futuro che ci aspetta è proprio nella capacità di renderci conto di questa trasformazione psichica del mondo ed esteriorizzazione mondana delle nostre anime individuali e collettive”.
Da molto meno di due decenni, il compito che era stato per secoli affidato alle arti, quello di dar forma al nostro io, è stato assunto da altre forme simboliche, assieme più ibride, sporche ma anche più universali e radicali di quelle che il sistema delle arti era stato capace di classificare. I social media sono questo: una forma di romanzo collettivo a cielo aperto, in cui tutti sono al tempo stesso autori, personaggi e lettori di come la propria vita si intreccia a quella degli altri. È una forma aumentata ed estesa di letteratura. Una forma aumentata perché la frattura propria alla letteratura che divideva i personaggi da una parte, e autori e spettatori dall’altra, è saltata. Per questo realtà e finzione non si oppongono più come facevano nel sistema delle arti tradizionali.
Qualche anno fa Josephine Ludmer aveva descritto lo stato attuale della letteratura notando come la finzione non era più “un genere o un fenomeno specifico, ma copriva piuttosto la realtà fino a confondersi con essa”. Non si tratta solo del problema per cui la “finzione si confonde con la realtà”: in realtà “il nuovo regime cambia lo statuto della finzione e la nozione stessa di letteratura”, perché “la letteratura assorbe la mimesis del passato per fabbricare il presente e la realtà”. La realtà stessa è fabbricata letterariamente, artisticamente. È questo statuto che Ludmer chiama letteratura post-autonoma: piuttosto che produrre arte – ovvero una sfera di realtà sottratta all’uso e alla vita –, diventa “fabbrica di realtà”. I nuovi media hanno permesso alla letteratura – non più limitata alla parola – di trasformarsi in questo spazio. La trasformazione della letteratura e dell’arte, che è cessata di essere una pratica limitata, elitaria, in atto di esistenza collettiva.
L’EPOCA DELL’AUTO-FICTION
La città diventa una comunità che usa l’arte per immaginare e produrre la propria stessa realtà e la propria stessa vita. D’altra parte, è diventato necessario fingere, immaginare la propria realtà personale e affettiva per poterla vivere. È per questo che la distinzione tra autore e personaggio è venuta meno: perché è solo essendo personaggio di finzione che si acquista uno statuto di autore e non viceversa. Ed esser autore significa (su Facebook o su Instagram) avere accesso alla propria realtà solo attraverso una finzione letteraria. È una forma aumentata di letteratura perché il medium su cui si esercita non è quello puramente verbale, ma su una serie di supporti che cercano di riprodurre il più possibile l’esperienza. È estesa perché riguarda davvero un numero impressionante di utenti rispetto alle arti tradizionali.
Si tratta in fondo della realizzazione del compito che le avanguardie storiche avevano dato alle arti, di coincidere con la vita. Da questo punto di vista, Facebook o YouTube incarnano un vero e proprio paradosso: quello di una realtà che ha bisogno di essere giocata, messa in scena, che deve diventare finzione per essere più reale di quanto non sia, e quello di una finzione che non serve a portare l’immaginazione in un altrove, in mondi sconosciuti, in vite diverse, ma che deve permettere a chi immagina di coincidere il più possibile con ciò che è. La vita diventa una serie di auto-fiction che servono a diventare ciò che si è. Il soggetto è il custode di questo paradosso: quello di essere da un lato il drammaturgo di una vita reale, il cui teatro coincide con il mondo che è sotto gli occhi di tutti, e dall’altro l’interprete della propria vita, ma che è anche scritto e composto da e per gli altri.
LA COSCIENZA EN PLEIN AIR
Questa trasformazione è più radicale di quello che si può immaginare. Perché se la vita diventa oggetto di costruzione estetica, tutto quello che costituisce la nostra esperienza diventa manipolabile, e manipolabile attraverso la sua semplice immagine. Non c’è più differenza tra un oggetto e la sua rappresentazione. È soprattutto per questo che la scrittura di questa nuova letteratura deve occupare tutti i media, confonderli proprio come tutte le cose del mondo confondono la propria identità visiva, tattile, olfattiva e razionale. E non c’è nemmeno separazione spaziale, di ritirarsi fuori dal mondo per rendere possibile la coscienza.
Per avere coscienza di qualcosa non è necessario separare l’immagine di qualcosa dal mondo, è necessario al contrario estroflettere la coscienza nel mondo. La metafora della coscienza non è più l’oscurità: la coscienza è il plein-air. È immagine nell’immagine. L’esperienza ha luogo ora sempre fuori coscienza. Il medium psichico e quello cosmico sono la stessa cosa. Non siamo più dentro di noi nella coscienza che fuori, nel corpo o addirittura fuori corpo. È come se ci fossimo accorti della capacità dell’esperienza di vivere fuori di noi. Di riverberarsi al di fuori, non solo attraverso la scrittura, la parola o il cinema.
NOI SCENEGGIATORI E PERSONAGGI
Attraverso queste macchine psico-mimetiche stiamo costruendo assieme una specie di nuova “anima del mondo”, una psiche collettiva, di cui ognuno è soggetto solo nella misura in cui è un contenuto, un personaggio. D’altra parte, la coscienza è solo un veicolo, qualcosa che permette di trasmettere altrove un’emozione, una conoscenza, una percezione. La coscienza è contagiosa e diventa virale. Attraverso queste macchine però stiamo cambiando soprattutto la natura del mondo. Perché il mondo stesso diventa ora, per noi, un fatto psichico. Il mondo non è più composto da fatti o eventi, è composto da una psiche diffusa, da una coscienza in cui siamo tutti immersi. La psiche è diventata mondo e il mondo è un fatto psichico prima di essere materiale. Non è solo cognitivo, ma psichico, demonico, ed è per questo che l’io sembra moltiplicarsi in maniera così virale. Non si tratta solo di narcisismo. D’altra parte, la psiche collettiva non è più qualcosa di trascendentale e astorico (non sono più “archetipi”) ma delle realtà malleabili e proprio per questo poetiche ed estetiche: l’adesione è legata a una decisione di gusto ed è possibile manipolarle all’infinito.
Il futuro che ci aspetta è proprio nella capacità di renderci conto di questa trasformazione psichica del mondo ed esteriorizzazione mondana delle nostre anime individuali e collettive. E, soprattutto, nella forma che daremo a questa anima-mondo collettiva di cui siamo e saremo tutti assieme sceneggiatori e personaggi. Saremo tutte e tutti Chiara Ferragni e Sofia Viscardi ma dovremo imparare a declinare attraverso il loro volto vite ed esperienze che loro e noi stesse riusciamo appena a immaginare.
‒ Emanuele Coccia
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #55
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