Ripensare il nostro modo di vivere. In una Capanna nel bosco. Intervista ad Azzurra Muzzonigro
Un progetto di architettura sostenibile che nasce idealmente prima del Covid-19 ma che durante la pandemia si sviluppa. A partire da un libro, Quattro Capanne di Leonardo Caffo. Intervista all’architetto Azzurra Muzzonigro
Mostrare che esiste un altro modo per vivere, “più libero e attento a ciò che è realmente essenziale”. Con queste parole l’architetto Azzurra Muzzonigro co-fondatrice di Waiting Posthuman Studio, la piattaforma di ricerca fra filosofia, architettura e arte creata insieme a Leonardo Caffo (filosofo) e Laura Cionci (artista) cinque anni orsono, racconta Una Capanna nel Bosco ovvero come abitare il pianeta con passo leggero, reversibile, condiviso. Si tratta di un progetto di architettura sostenibile di dimensioni contenute (è 3 x 3x 3,80 m), realizzato nel Bosco di Civenna, in provincia di Como (dove sarà presentato al pubblico l’8 settembre 2020 alle ore 12) in legno (abete, iroku e okume), ferro e rame per il tetto. Nata almeno come idea prima dell’emergenza Coronavirus, la capanna è stata poi sviluppata durante il lockdown, in un periodo che ha amplificato l’esigenza di approfondire nuovi modelli di abitabilità e la tematica ambientale, sulla base teorica del libro Quattro Capanne, o della semplicità, libro di Leonardo Caffo, uscito a fine giugno per nottetempo. Ne abbiamo parlato con la Muzzonigro.
Quali sono i presupposti da cui nasce la Capanna nel bosco?
La prima volta che abbiamo iniziato a parlare di costruire fisicamente una capanna eravamo in un altro mondo, non c’era ancora il Covid-19 e l’umanità era ancora convinta di essere dominante e inarrestabile. Poi è bastato un microrganismo invisibile a occhio nudo per mettere in ginocchio ogni certezza e mostrarci, nello spazio di pochissime settimane, tutta la fragilità della nostra specie: non invincibili e superiori, ma fragili e interconnessi all’ambiente e alle altre forme di vita. Ecco, la capanna è lo spazio di vita che corrisponde all’umanità che si scopre consapevole dei propri limiti. Che poi, nel nostro gruppo di ricerca è la condizione della post-umanità, per come la racconta Leonardo soprattutto in Fragile Umanità, uscito per Einaudi nel 2017. Quindi l’idea della capanna nasce molto prima del lockdown, ma in questi mesi in cui ciascuno di noi ha conosciuto a fondo il significato della parola “isolamento”, ha di colpo assunto un’attualità sorprendente.
Che caratteristiche ha?
Gli ingredienti di questo strano esperimento di architettura applicata alla filosofia e viceversa sono pochi (ma buoni!). Da una parte una casa editrice –nottetempo– che con la collana terrasta lavorando a fondo sul tema del rapporto fra la nostra specie e il pianeta e per farlo decide di mettersi in gioco su altri piani “esondando” dalla forma-libro nello spazio tridimensionale. Dall’altra un gruppo di progettazione multiforme e dotato di un pizzico di follia, (me e Margherita Gistri per Waiting Posthuman Studio insieme a Emanuele Braga per Landscape Choreography) che decide di raccogliere la sfida di trasformare in materia tante riflessioni teoriche che vanno dall’urbanistica debole di Andrea Branzi al terzo paesaggio di Gilles Clément, dalla cosmogonia yanomami di Davi Kopenawa al futuro decolonizzato afrofuturista di Sun Ra.
E poi gli “abitanti” delle quattro capanne…
Sì, un filosofo del linguaggio (Ludwig Wittgenstein), un matematico terrorista (Theodor Kaczynski ‘Unabomber’), un esploratore trascendentalista (Henri David Thoreau), un architetto modernista (Le Corbusier). Per finire un gruppo di lavoro competente e molto determinato: Ebony Carpentry, una cooperativa di richiedenti asilo dal Ghana, che si stanno specializzando carpentieri come forma di lavoro e quindi di inclusione sociale insieme a Sumiti, una piccola falegnameria che ha sede dentro Ri-Maflow, una fabbrica nell’hinterland milanese, prima occupata poi trasformata in una cooperativa di artigiani. Una Capanna nel Bosco ha dentro un pò tutte queste influenze: esteticamente somiglia a una navicella spaziale, un’astronave madre Afrofuturista, che sembra atterrata nel bosco per chiedere uguali diritti per tutti i viventi.
Che gli sviluppi futuri prevedi?
Per il momento questa navicella spaziale atterrata nel bel mezzo del bosco lariano farà quello per cui è stata costruita: un luogo di ritiro e di sperimentazione di altre pratiche di relazione con il vivente. Pratiche che partano da una dimensione corporea, prima che mentale. Se da queste pratiche nascerà poi un vero e proprio laboratorio di filosofia applicata all’arte e all’architettura nel bosco chi può dirlo, sarebbe sicuramente bellissimo!
Perché è fondamentale ripensare oggi ad una idea di architettura sostenibile?
La scorsa primavera abbiamo sperimentato tutte e tutti, a tutte le latitudini, la vertigine di trovarci di fronte a un abisso indomabile e incontrollabile. Eppure il cigno nero del Covid, che come un fulmine a ciel sereno è piombato nelle vite del genere umano interrompendone bruscamente i processi, è una delle manifestazioni possibili di uno squilibrio strutturale, profondo, in larga parte irreversibile dei processi naturali cui la nostra specie ha costretto il resto delle forme di vita e gli ecosistemi, assoggettandoli al proprio incontestabile dominio. L’architettura, in quanto spazio per la vita, non è neutrale e men che meno innocente in questo processo. La direzione che si vuole suggerire con Una Capanna nel Bosco è quella di alleggerire la nostra impronta sul pianeta, concentrarsi su ciò che è realmente essenziale e abitare con il passo più leggero possibile e con lo sguardo meno colonizzato possibile.
Abbiamo vissuto mesi molto fragili che hanno rimesso in discussione il concetto di abitare. Come sarà a tuo parere la casa del domani? E lo spazio pubblico?
Vorrei chiarire un altro aspetto. Questa capanna è da considerarsi un prototipo di uno spazio in cui recuperare un rapporto più profondo con se stessi e con le altre specie viventi. In quest’ottica può essere immaginata in tanti luoghi diversi e con tante forme diverse: come sarebbe ad esempio una capanna in una piazza pubblica, o in un parco, su un tetto, su un albero? Ciò che conta non è la forma che ha, nè tanto il luogo in cui è posizionata, ma il fatto che porta con sé la possibilità di riscoprirci animali, di riscoprirci parte della natura, per poi tornare nel mondo con uno sguardo diverso, più consapevole, più radicato e più connesso. Io la vedo come una sorta di attivatore della consapevolezza umana, o meglio postumana.
La risposta è nel recuperare il rapporto con la natura?
Pensa a come sarebbero gli spazi pubblici o gli spazi domestici se prevedessero dei luoghi in cui riprendere contatto con le proprie fragilità, per poi tornare nel mondo più forti perché più radicati. Il punto, per come la vedo io non è tanto recuperare il rapporto con la natura, ma riscoprire la natura in noi. La capanna non è che uno spazio in cui stabilire attraverso il corpo delle relazioni diplomatiche con le varie parti di noi stessi e con il resto del vivente, un piccolo seme per dare forma a un futuro più aperto, consapevole, condiviso.
– Santa Nastro
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