Conversazione con Teresa Mayr, vincitrice del Premio Trieste Contemporanea
L’artista tedesca Teresa Mayr si è aggiudicata l’edizione 2019 del Premio Trieste Contemporanea e domani, 9 settembre, alle ore 18:30, sarà protagonista del talk con il curatore della mostra Daniele Capra.
In occasione del finissage della personale e della presentazione del catalogo, ospitiamo un conversazione fra Teresa Mayr (Friedberg, 1992), giovane artista cui è andata l’edizione 2019 del Premio Trieste Contemporanea, e il curatore della mostra Daniele Capra.
Il disegno è il tuo mezzo espressivo prediletto. Tale medium è meno articolato e più veloce della pittura. Per secoli, nella tradizione occidentale, i disegni hanno avuto essenzialmente la funzione di schizzo o di appunto, mentre nel tuo caso sono delle opere concluse. In che modo il disegno è diventato così significativo per te?
È proprio il suo aspetto immediato, semplice e intimo a essere attraente per me. Sono anche interessata alla questione del dipingere nell’atto di disegnare: può cioè un disegno essere pittura? Quand’è che i confini cominciano a confondersi? Ho affrontato questo aspetto in modo particolare nelle mie opere più recenti, nelle quali ho usato anche pastelli e pennarelli. Un’altra ragione per cui disegnare per me è importante è la sua sostenibilità: basso impiego di materiali, facilità nella conservazione e nel trasporto.
Di norma la pittura è basata sull’opportunità per l’artista di fare/cancellare/rifare. Possiamo immaginarla come una pratica di aggiunta e di sottrazione. Il disegno, invece, è diretto e monoverso, dato che l’artista non può ritornare a una fase antecedente. Come coniughi tale rapidità con le sensazioni di intimità?
Le mie immagini sono create attraverso un processo. Non c’è un reale progetto organizzativo o di costruzione spaziale. Proprio questo processo esecutivo veloce e diretto richiede di adeguarsi, accettare il risultato, escludendo la possibilità di tornare sui propri passi. La realtà che percepisco, compresi gli stessi sentimenti, è per me costituita da una combinazione imprevedibile e solo personale, determinata da una moltitudine di infinite possibilità.
Nella tua ricerca mescoli abitualmente argomenti come l’architettura e l’urbanistica con temi più intimi, come la consapevolezza dello spazio, la psicologia, la casa o la vita privata. Consideri la tua ricerca come una pratica politica?
Il mio lavoro si occupa delle influenze che l’ambiente ha sulle persone, di come esse ne risultino modellate. Mi concentro sui cambiamenti e sulle decisioni, specialmente negli spazi urbani, che inevitabilmente influiscono sui movimenti e sul comportamento dell’individuo. In questa prospettiva il tema dei miei disegni è fortemente politico, dato che riguarda il controllo e il condizionamento della progettazione e delle funzionalità degli spazi pubblici. E, di conseguenza, come la società ne sia modellata.
Le città e in generale la società sono il risultato delle negoziazioni tra differenti interessi, comportamenti, ideologie, storie personali e collettive. Ci si aspetta che siano il paradiso della diversità, ma non è così, dato che, benché viviamo in un sistema democratico, il potere non è ben equilibrato e i cambiamenti sono troppo repentini per essere governati. Come può la tua pratica aiutare l’osservatore a comprendere o a gestire il processo di cittadinanza attiva?
Quando si guarda una mia opera normalmente non si vede niente che non sia conosciuto. Ciononostante le scene che ho disegnato rimangono inabitate e deserte. Gli spazi funzionali sono privati del proprio scopo, ed è più facile argomentarne la scontata necessità. Se si immagina una scala mobile, può assomigliare a un animale affamato, a una costruzione in qualche modo assurda. Io vorrei creare la consapevolezza che una scala mobile, per rimanere nell’esempio, è un principio funzionale che è stato progettato, ma non è una parte solida del terreno su cui camminare. Se si capisce questo, le strutture e i sistemi della società sembrano più fragili e modificabili. E tale prospettiva può incoraggiare a innescare un cambiamento, a non prendere le cose troppo seriamente o a non esserne sopraffatti.
Come scegli le viste delle tue città? Come metti insieme nelle tue opere le tue esperienze personali con le più anonime e impersonali immagini che trovi su Google o sui social network?
Le immagini che trovo online hanno la medesima funzione delle strutture negli spazi pubblici. Le piattaforme digitali standardizzano le immagini personali e soggettive in forma di contenuto, esattamente allo stesso modo in cui lo spazio fisico pubblico e le infrastrutture sono organizzate. Nei miei disegni fondo questa vista, apparentemente obiettiva, con la mia propria prospettiva e le mie memorie, per farne delle immagini costruite e fittizie. Il processo risulta in questo modo intuitivo e fluido.
Ma nelle tue opere le case sono disabitate, i negozi, gli spazi e i giardini sono vuoti. Gli uomini sono scomparsi. Perché hai scelto di nascondere la loro presenza?
Perché nel mio lavoro non mi occupo di esseri umani…
‒ Daniele Capra
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati