Push the Limits. 17 artiste alla Fondazione Merz di Torino
La Fondazione Merz di Torino ospita una collettiva di artiste impegnate in una riflessione su temi e dinamiche dell’epoca attuale.
Dopo il periodo di chiusura imposta dal lockdown, la Fondazione Merz presenta Push the Limits, il nuovo progetto culturale a cura di Claudia Gioia e Beatrice Merz che propone “una polifonia di segni ed esperienze” testimoni della “capacità di far transitare sulle soglie del pensiero tutte quelle realtà che sono oltre”. La mostra, visitabile fino al 31 gennaio 2021 (e quindi presente nel mese di novembre, periodo fondamentale per l’arte contemporanea a Torino), raccoglie le voci di 17 artiste dalla provenienza e dal calibro internazionali; la finalità dell’esposizione consiste nell’indagare, generando un “paesaggio continuo” composto con pluralità di mezzi, tipologie di opere ed espressioni, “la capacità dell’arte di porsi costantemente al limite per spostare l’asse del pensiero, della percezione e del discorso, immettendo nuovi elementi nel sistema”.
Il progetto è costituito anche dalla pubblicazione di un volume che raccoglierà, oltre alla documentazione iconografica, contributi critici delle artiste coinvolte e di filosofi, storici, critici e scrittori: una comunione di intenti tesa alla ricerca di una definizione odierna di “limite” e alla riscrittura di un vocabolario del “superamento”; una sperimentazione che compara e confronta visioni che sorpassano gli stereotipi del sapere, spostando i significati oltre la soglia dei preconcetti. Discriminazione, consumismo, questioni di genere, rapporti di potere, semantica del linguaggio, letteratura e architettura: sono solo alcuni dei temi salienti dell’autorevole rassegna. Qui approfondiamo le opere delle artiste coinvolte.
‒ Federica Maria Giallombardo
KATHARINA GROSSE ‒ THE HORSE TROTTED A LITTLE BIT FURTHER, 2020
Benché si debba tenere presente che la mostra non ha un percorso prestabilito né propedeutico – e che quindi è affidato al libero arbitrio dell’osservatore il disegno di un itinerario tra le opere –, l’installazione monumentale di Katharina Grosse (Friburgo, 1961) accoglie il visitatore all’ingresso dello spazio espositivo principale: come attraverso un portale scolpito da folate di vento perpetuo, si deve valicare fisicamente l’opera, percorrendo il gesto pittorico e il volume scultoreo del tessuto che inondano di cromie squillanti lo sguardo. Un drappeggio che indaga le possibili corrispondenze tra superficie e pensiero creativo.
ROSA BARBA ‒ SEA SICK PASSENGER, 2014
La costruzione dell’opera di Rosa Barba (Agrigento, 1972) riflette una metodologia esemplare, che costringe a rivelare la paradossalità della semantica scomponendola in frammenti cognitivi. Si tratta di un testo composto su un ampio quadrato di feltro poggiato a terra, ma sollevato al punto da generare un’ombra; decifrare le frasi diviene allora difficile, forzando i processi neuronali di ricostruzione di senso. In una lettura anti-impressionistica che parte dal livello dell’invisibile per approdare al visibile, l’impegno nella decodificazione trasforma chi legge in editore e costruttore di un nuovo linguaggio.
SOPHIE CALLE ‒ PARCE QUE, 2018
Come Rosa Barba concentra la sua poetica nel rapporto tra testo e materia, così Sophie Calle (Parigi, 1953) ha dedicato la sua serie di fotografie alla relazione tra testo e fotografia.
Il mistero risiede qui nella disposizione degli elementi: dei teli, ricamati con un breve testo, nascondono le fotografie; sollevando la stoffa per guardare l’immagine, si materializza la metafora di osservare “oltre le tende” che separano la sfera pubblica da quella personale. Un’opera ironica, dove il rimando tra idea e realizzazione è dettato da vivaci giochi di parole.
SHILPA GUPTA ‒ WHEREDOIENDANDYOUBEGIN, 2012
“Where do I end and you begin” (“Dove io finisco e tu inizi”). Una scritta luminosa lunga 8 metri, sospesa in alto, con una frase lampante e dalle molteplici letture: si pensi alle parole di Nâzim Hikmet – Dove finisce la notte / dove comincia la città? / dove finisce la città e dove cominci tu?/ Dove comincio e finisco io stesso? (Berlino, 1961) – o a quelle di Cinzia Dato – “Dove finisco io e dove cominci tu? Ci vorranno leggi perché ci saranno conflitti, bisognerà cominciare a fare una giurisprudenza, altre strutture” (Il sindaco taumaturgo e il governo delle città) – o ancora a quelle del Salomone di Giordano Falzoni – “Sento le tue braccia che si confondono con il mio desiderio […]. Ora ti vedo…ma non sento più dove finisco io e dove cominci tu” (Teatro da camera). Una linea ininterrotta di sentimento, memoria e sapere, che scorre e si trasmette da individuo a individuo; da civiltà a civiltà; da artista ad artista nell’opera di Shilpa Gupta (Mumbai, 1976).
MONA HATOUM ‒ IMPENETRABLE, 2009
Se Katharina Grosse invita all’attraversamento della sua opera come simbolico rito di iniziazione alla pittura, l’installazione di Mona Hatoum (Beirut, 1952) appare respingente: fili spinati si librano in aria sospesi, evocando sia strutture progettate per delimitare, confinare e divenire impenetrabili; sia composizioni spaziali e musicali dotate di leggerezza e gradevolezza. L’immersione nell’opera è perciò mentale, sottintesa; nella sua semplice – non facile; semplice – linearità, si esprime lampante e incantevole.
JENNY HOLZER ‒ SWORN STATEMENT, 2019
L’opera di Jenny Holzer (Ohio, 1950) riassume con vigore la lotta statunitense (e non solo) contro la mistificazione della realtà, i pregiudizi e l’istituzionalizzazione della violenza: l’installazione a LED mette in luce l’impunità goduta dal personale militare americano di fronte alle accuse di abuso sistematico a detenuti nella guerra in Afghanistan. Un lavoro da tenace esegeta, con testimonianze e rapporti degli investigatori dell’Army’s Criminal Investigation Command (CID) raccolti dal 2004. Tutto racchiuso in messaggi immediati, impossibili da ignorare e perciò indispensabili per non dimenticare mai consapevolezze quotidiane.
EMILY JACIR ‒ PIETRAPERTOSA, 2019-20
Nel Milione di Marco Polo o nel New Voyage Round the World di William Dampier, gli autori si presentavano come avventurieri giunti ai confini del mondo e tornati indietro per riferire ciò che avevano visto e imparato agli altri uomini, che difficilmente avrebbero mai potuto percepire durante i loro rari spostamenti. Oggi, poiché il mondo è fittamente connesso in ogni suo ganglio, le esperienze eccezionali da ascoltare, leggere e comprendere sono quelle di frontiera: una condizione definita spesso come un “limbo”; un’incertezza ma anche un’opportunità per godere dei sentimenti solidali di accoglienza e integrazione.
Emily Jacir (Betlemme, 1970) riflette sul carattere nomade della parola, incidendo sulla pietra un’effige, in italiano e arabo, che recita: “Sei venuto tra la nostra gente e la tua vita è sicura”. Questo messaggio di accettazione e inclusione verrà posto infine alle porte del paese Pietrapertosa in Basilicata. Perché i pensieri sono sempre “di frontiera”.
BOUCHRA KHALILI ‒ TWENTY-TWO HOURS, 2018
La memoria è un’impronta nella cera che fissa luoghi e immagini nella mente umana: tutti i sensi si incontrano nella memoria e grazie a essa in ogni senso è contenuta la totalità delle altre percezioni. Si potrà traslitterare l’affermazione fino a dichiarare che, nell’esperienza estetica, in ogni arte sono contenute, attraverso la memoria, tutte le altre arti. Così testimonia il video di Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), frutto di una ricerca sull’esperienza Black Panther Party nel New England e sull’incontro di alcuni suoi esponenti negli Anni Settanta con il poeta francese Jean Genet. Il legame tra poesia e attivismo politico oggi trova nuovi testimoni nel racconto di giovani ragazze: l’esperienza si è fissata nella memoria dei posteri ed è contenuta nell’opera d’arte contemporanea. Oltre alla visione del film, il visitatore è invitato a sfogliare The Radical Ally, il magazine realizzato dall’artista che presenta immagini tratte dal video, scritti di Genet, una conversazione tra l’artista e Jackie Wang e molti altri contenuti.
BARBARA KRUGER ‒ UNTITLED (PENSA A ME PENSANDO A TE), 2019
Oltrepassare i limiti significa anche andare oltre il proprio ego: l’opera site specific di Barbara Kruger (Newark, 1945) è un invito a uscire da sé; a distaccarsi e a guardare dall’esterno – con spirito critico, appunto – il flusso ininterrotto di egocentrismi nati dal modus vivendi della società dei nostri giorni. La sfida resta aperta: l’intelligenza sociale e interpersonale potrà imbrigliare gli estremismi della solitaria vanità della propria immagine?
CINTHIA MARCELLE ‒ THE FAMILY IN DISORDER, 2020
“L’Inferno è un caos ben ordinato. Artisticamente non esiste caos, quindi anche un caos deve essere reso con ordine ‒ un ordine fatto in modo che ripensandoci dia un senso generico di caos. Se fosse composto caoticamente non darebbe il senso del caos, ma di confusione artistica: il disordine, invece che attaccarsi al mondo descritto, sarebbe messo in conto della descrizione”. Leo Ferrero descriveva così l’Inferno dantesco; e queste parole aderiscono perfettamente all’intento dell’installazione di Cinthia Marcelle (Belo Horizonte, 1974), che reinventa lo spazio espositivo suddividendolo in due ambienti causa-effetto – o paralleli, o simmetrici tra loro: il quesito resta volutamente aperto –, ognuno con la stessa quantità di materiali impiegati; in bilico tra smantellamento e ricostruzione; tra azione collettiva e pensiero particolare.
SHIRIN NESHAT ‒ SARAH, 2016
Il video di Shirin Neshat (Qazvin, 1957) mette in scena la situazione esorcizzante e liberatoria della morte quale atto di ribellione estrema: la protagonista, in un’onirica foresta infestata dai fantasmi di un passato traumatico, sfugge i presagi dell’annientamento e della distruzione, incarnando l’esperienza dell’individuo contemporaneo oppresso dalla paura della morte, dall’angoscia della violenza e dall’orrore del genocidio.
MARIA PAPADIMITRIOU ‒ DIAMOND OF OTHERNESS-KALEIDOSCOPE OF THE MOTIONS OF THE SOUL, 2020
Maria Papadimitriou (Atene, 1957) ha sempre dedicato la sua ricerca alla letteratura e si è spesso lasciata ispirare dai suoi studi comparatistici. In questa occasione, l’opera nasce dalla frase di Arthur Rimbaud “Je est un autre”, (“Io è un altro”) che, dal 1871, ricorre nei suoi scritti. Ma si può anche notare, nella forma del caleidoscopico geometrico solido ricoperto di specchi, un evidente riferimento al “poliedro Dürer” rappresentato nell’incisione Melencolia I (1514), simbolo alchemico delle virtù morali e del temperamento melanconico.
Un compendio del pensiero che attraversa diverse epoche e differenti espressioni sull’artista, sulla capacità dell’arte di trasformare il mondo – il piombo che si trasforma in oro, secondo il riferimento esoterico – e sul valore che l’osservatore riversa nell’opera; nuove percezioni che si riflettono nel presente a partire da codici eterni – del resto, Papadimitriou non scontenta mai né lo sguardo né l’intelletto.
PAMELA ROSENKRANZ ‒ AMAZON SPIRITS, 2018
Una stanza disposta a metà tra un ufficio abbandonato e un ambiente naturale: l’installazione di Pamela Rosenkranz (Uri, 1979) unisce l’attenzione per gli ecosistemi dell’Amazzonia con la storia dell’omonimo colosso mondiale, paradigma del consumismo contemporaneo. Sarebbe potuta risultare un’installazione senza cuore, spietatamente ancorata al gioco di parole e alla mera denuncia al capitalismo digitale; invece, le luci e i suoni che avvolgono lo spazio – questi ultimi provenienti da una cassa Amazon Echo: fischi e cinguettii della foresta tropicale – addolciscono l’inquietudine del messaggio, con una solo apparentemente inspiegabile delicatezza.
CHIHARU SHIOTA ‒ WHERE ARE WE GOING?, 2017-20
Ragnatele di intrecci; trame, narrazioni fluttuanti; imbarcazioni che aspettano di traghettare qualcheduno altrove. L’installazione di Chiharu Shiota (Osaka, 1972) è sinuosa, positivamente ridondante, delicata e al contempo forte; il fulcro, ovvero la simbologia della barca quale viatico della transitorietà e immagine della potenza della vita e del desiderio di trasformarsi e controllare il proprio destino, è impetuoso nello spazio espositivo – quasi dolcemente spettrale. E, proprio in virtù dell’immagine archetipica di flusso esistenziale – “un oceano di esperienze, emozioni, incontri e ricordi che vanno a comporre una molteplicità di interazioni”, recita il comunicato stampa – è già l’opera più fotografata e condivisa dalla “corrente” dei visitatori.
FIONA TAN ‒ BRENDAN’S ISLE, 2010
La Navigatio Sancti Brendani è un’opera anonima in prosa latina che racconta le vicissitudini di san Brendano, abate benedettino irlandese vissuto nel VI secolo che si procurò la fama di navigatore fondando monasteri sulle isole tra l’Irlanda e la Scozia. La leggenda agiografica ha reso il santo un moderno Odisseo – o un antico Cristoforo Colombo – e Fiona Tan (Pekanbaru, 1966) mantiene la dimensione epica e spettacolare della narrazione con il brano Brendan’s Isle, che fa riferimento a una poesia olandese medievale sulle avventure del viaggio attraverso l’oceano alla ricerca di un’isola un tempo scritta sulle mappe, tutt’oggi non individuata. Il perfetto esempio di arte onnicomprensiva.
CARRIE MAE WEEMS ‒ CONSTRUCTING HISTORY. A REQUIEM TO MARK THE MOMENT, 2008
Il video e le fotografie di Carrie Mae Weems (Portland, 1953) raccontano, trasfigurandoli, momenti cruciali delle battaglie sociali (quali l’arresto dell’attivista Angela Davis e gli scontri all’università di Kent in Ohio nel 1970). Una valorizzazione della storia e della cultura – anche “di massa” – passate, con un rinnovato apparato iconografico per rendere le conquiste dei diritti civili comprensibili alle generazioni future, anche e soprattutto attraverso immagini iconiche.
SUE WILLIAMSON ‒ OTHER VOICES, OTHER CITIES, 2009-17
Oggi, vivere in una determinata città diviene più una scelta (se pur spesso dettata dalla necessità) e meno una variante dipesa dal luogo di origine della famiglia. Il polimorfo e sfaccettato sguardo di Sue Williamson (Lichfield, 1942) esplora la definizione di città e cittadini nel processo di globalizzazione: un gruppo di giovani sono stati invitati a partecipare a un seminario, durante il quale si chiedono pareri al riguardo. Tutti insieme realizzano e dipingono le lettere che compongono la risposta, fotografandola infine in un luogo appropriato. Ma la parte maggiormente interessante è quella che gioca con la realtà virtuale: grazie a essa, negli spazi esterni della Fondazione, il pubblico diventa agens dell’operazione, ricollocando monumenti ed eventi famosi e quindi assegnando significati e ruoli diversi ai luoghi del mondo.
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