Come un’architettura di carta: la storia della rivista Vesper
Parola a Sara Marini, direttrice di “Vesper”, la rivista semestrale nata un anno fa nell’ambito dello IUAV di Venezia. Un prodotto editoriale “lento”, che approfondisce il ruolo della Laguna come laboratorio d’eccezione.
Semestrale, multidisciplinare e bilingue: a quasi un anno dal debutto di Vesper e alla vigilia dell’uscita del terzo numero, dal titolo Nella selva, abbiamo intervistato la direttrice della rivista, nonché professore ordinario in Composizione architettonica e urbana all’Università IUAV di Venezia, Sara Marini.
La storia di Vesper è profondamente legata a Venezia, città di cui lei scrive: “La sua indeterminazione primordiale la rende il miglior laboratorio, impensabile in altri contesti, per mettere a fuoco questioni cruciali per il futuro“. Una frase quasi profetica, visto che oltre alle conseguenze (già tangibili) del cambiamento climatico, Venezia sta subendo i contraccolpi turistici della pandemia. Quali risorse, umane, intellettuali e anche architettoniche, ritiene che la città possa mettere in campo per riscrivere il suo avvenire?
Venezia è un paradigma perché il suo piccolo centro storico dalla forma compiuta persiste immerso in una laguna, intrattiene quindi rapporti diretti con il proprio territorio. La città e il territorio è il titolo di un libro edito recentemente nel quale sono raccolte quattro lezioni genovesi che Giancarlo De Carlo tenne negli Anni Novanta in un’altra repubblica marinara e nelle quali insiste sulla necessità che un nucleo urbano non dimentichi l’ambiente che lo ospita, che non ne dimentichi le dinamiche e le regole. Venezia è anche al centro di un territorio più complesso che potremmo far coincidere con i suoi confini comunali all’interno del quale prendono corpo dinamiche sociali ed economiche di stampo metropolitano: in pratica la perla della laguna è solo un punto (dove si concentrano attività culturali e turistiche) di un sistema economico e sociale articolato.
Quindi cosa significa guardare a Venezia?
Guardare a Venezia equivale a riflettere su un patrimonio architettonico ad alta densità che è vissuto da un numero di abitanti apparentemente molto limitato, ma che raccoglie anche un vasto bacino di utenti e lavoratori dalla terraferma e in parallelo richiama e raccoglie un pubblico internazionale. In questo piccolo nucleo si formano così comunità temporanee in modo molto dinamico, comunità fondate sul sapere immateriale e materiale perché la città chiede per essere vissuta continue invenzioni spaziali e organizzative. E poi è un luogo nel quale la modernità del Novecento è entrata molto poco (pur essendoci Marghera all’orizzonte): anche da qui il nome della rivista, Vesper, che rimanda alla luce della sera per sottolineare un modo di pensare e lavorare che non cerca velocità e grande dimensione ma che può insinuarsi nell’esistente senza stravolgerlo, sollecitandolo a un continuo cambiamento. Per queste ragioni Venezia è un laboratorio del futuro nel quale ragionare del rapporto città-ambiente, città-patrimonio, nel quale è indiscutibile il valore dell’architettura e dello spazio aperto, nel quale il ruolo delle comunità, anche temporanee, è centrale.
LA STORIA DI VESPER
Concentriamoci sulla rivista, ripercorrendone la genesi. Quali sono gli obiettivi del Dipartimento di Culture del progetto dell’Università IUAV, dove è nata, e l’orientamento che ha voluto assegnarle?
La rivista è parte del programma della Infrastruttura di ricerca Ir.Ide, istituita nel nostro Ateneo a seguito del fatto che il Ministero abbia riconosciuto il nostro dipartimento come Dipartimento di Eccellenza. Vesper quindi è stata progettata per restituire specificità e forme di collaborazione delle diverse Culture del progetto, ricalcando il nome del nostro dipartimento. Vesper, il cui primo numero è stato pubblicato a novembre 2019, raccoglie ricerche e riflessioni in chiave scientifica, è pensata come una architettura di carta nella quale forma e contenuto si potenziano a vicenda. Impostata sulla valorizzazione delle diverse modalità di scrittura e articolata in rubriche, cerca di rinnovare l’eredità delle riviste cartacee italiane anche nel suo essere bilingue (italiano e inglese). Ogni numero, che viene edito con cadenza semestrale, affronta un tema nel quale, per tornare alla lezione di Venezia, passato, presente e futuro s’incrociano per sottolineare le trasformazioni e le permanenze delle forme del progetto.
Ad esempio?
Nel primo numero, dedicato a “Supervenice”, un saggio di Nicola Emery racconta la visita alla città lagunare del giovane Walter Benjamin proprio nei giorni in cui veniva festeggiata la ricostruzione del noto campanile di San Marco crollato a inizio del Novecento. I ragionamenti di Benjamin sull’aura di Venezia sono sia la testimonianza di un tempo lontano sia appunti di evidente attualità, al contempo le immagini di uno dei simboli del centro storico ridotto in macerie rimandano a situazioni che hanno segnato la contemporaneità e aprono riflessioni su scelte che ci attendono nel futuro prossimo. Il primo numero di Vesper è stato doverosamente dedicato alla città nella quale la rivista è pensata; il secondo ha affrontato il tema “Materia-autore”, cercando di leggere le diverse forme dell’autorialità, la coincidenza e le distanze tra autore e opera, l’incedere dell’intelligenza artificiale. Nel secondo numero, ad esempio, nella rubrica “racconto” è ospitata una breve autobiografia di Andreas Angelidakis incentrata sulle sue sperimentazioni di architetto digitale, sulle prove riuscite e su quelle fallite del progetto dentro il mondo virtuale, spazio sempre più simile a una selva, come verrà sottolineato nel prossimo numero. “Nella selva” appunto è il tema del terzo numero nel quale i diversi autori coinvolti affrontano il ritorno di un’immagine dantesca che investe i territori, le città, l’idea di natura con le sue molteplici forme di vita.
Accennava alla struttura di ciascun numero monografico. Ancor prima dei contenuti, sfogliandola colpiscono la relazione tra i contributi testuali e visivi e le variazioni tattili e cromatiche. Le scelte compiute dal punto di vista grafico sono il riflesso di quale volontà?
La rivista raccoglie posizioni e forme di scrittura differenti nello stesso volume di carta. Il progetto grafico è dello studio Bruno di Venezia, è edita dalla casa editrice Quodlibet, quindi è un progetto collettivo sia nel suo farsi che nel suo proporsi. Diversi autori sono coinvolti in ogni numero e volevamo che questa collettività, fatta di singolarità, fosse restituita e che il viaggio del lettore non fosse una navigazione certa in un territorio noto ma un attraversamento con soste in un paesaggio da scoprire. Vesper, come sottolinea il suo nome che rimanda al crepuscolo e alle ombre lunghe che si creano nella luce della sera, recupera il valore del testo: è un oggetto di carta sia da sfogliare ma anche e soprattutto un volume da leggere, i contributi scritti sono molto lunghi o anche molto brevi, non rinunciano a note e riferimenti bibliografici, allo stesso modo le immagini sono discorsi nei quali immergersi.
In un certo senso, queste strategie possono “sostenere” il lettore nella lettura dei long form, alla luce delle numerose sollecitazioni visive proprie della lettura attraverso lo schermo?
Quando abbiamo progettato Vesper ci siamo posti il problema del tempo di lettura, d’informazione, della conoscenza; abbiamo così optato per una rivista non veloce, una scelta che può apparire in controtendenza, che propone un controcampo alla nuvola di informazioni istantanee. Vesper vuole rimarcare nella sua forma e struttura l’importanza dello spazio, anche su carta. Le rubriche (fin dalla copertina, pensata come primo contributo e affidata sempre a un fotografo o a un artista) sono luoghi nei quali trovano spazio gli autori e le loro tesi sul tema, un po’ come in una casa o in una città nelle quali ogni stanza ogni piazza o via assumono una forma, una tonalità, una luce. Anche i tipi di carta usati rimandano al valore della materia, del tatto che però ha delle corrispondenze con il pensiero espresso: sono pensati per accompagnare il lettore dentro lo spazio del suo personale viaggio.
VENEZIA E L’ARCHITETTURA
Il terzo numero è atteso per novembre 2020 ed è già attiva la call per il successivo, dal titolo Esili ed esodi. È una modalità di partecipazione molto interessante, che comporta uno scrupoloso lavoro di selezione di autori e contributi. Quali le eventuali difficoltà tecniche già evidenziate? E quali le potenzialità insite in questa modalità di concepire la rivista?
Lo strumento della call è stato attivato fin dal secondo numero della rivista, il primo chiaramente è stato costruito solo attraverso inviti. Dal secondo numero gli autori sono cercati sia con inviti che, soprattutto, tramite la call; quest’ultima, diffusa su canali nazionali e internazionali, è utile a scoprire quanto non si conosce, a creare quell’imprevisto necessario affinché tutto non sia già noto al comitato editoriale, a quello scientifico e alla redazione. Attraverso la call abbiamo incontrato autori italiani e stranieri che non conoscevamo, che lavoravano al tema su cui volevamo concentrarci, stiamo facendo delle interessanti conoscenze e scoperte. Una difficoltà riscontrata nelle tre call che sono state fatte fino a ora è stata la comprensione delle rubriche, ma questo era stato preventivato. Il paesaggio diversificato delle rubriche è stato sempre più cancellato soprattutto nelle riviste scientifiche, a volte queste somigliano di più a una uniforme raccolta di saggi e questo ha portano anche a un appiattimento degli stili e delle forme della scrittura. È un processo un po’ paradossale perché ad esempio se si guarda ai libri classici dell’architettura, da quelli scritti da Le Corbusier o più recentemente da Rem Koolhaas, questi restituiscono un ambiente editoriale molto ricco e sfaccettato. Penso ancora al libro A Scientific Autobiography di Aldo Rossi, un testo scritto nel 1981 che apre alle questioni contemporanee e che già dal suo titolo annuncia una precisa posizione rispetto ai modi della scrittura. Leggere e scrivere di architettura, arti e teoria non può equivalere a rispondere a convenzioni di stile ma a ricercarle e modificarle, porta obbligatoriamente a interrogarsi sempre sulla struttura del discorso (manuale, dizionario, raccolta di poesie, manifesto…) e sul rapporto non scontato tra testo e immagini.
Oltre a Sull’Autore, dedicato all’opera di Grasso Cannizzo, ha scritto il saggio Nuove Terre. Architetture e paesaggi dello scarto. Negli ultimi anni assistiamo a un rinnovato interesse verso luoghi marginali, spazi irrisolti, infrastrutture e architettura in disuso o abbandonati, forse troppo rapidamente associati a un’immagine di “affascinante degrado”. “Le popolazioni decidono di sostituirsi allo stato per curare i territori“, è uno dei passaggi inclusi nella call del secondo numero di Vesper. Come giudica i vari percorsi (sia di ricerca, sia di progettazione partecipata o “dal basso”), che sempre più di frequente vengono intrapresi in Italia sulla scia della “volontà di riattivazione” di questi luoghi?
La consapevolezza sul valore degli spazi che abitiamo, dal territorio alla casa privata, raccoglie molteplici tensioni. La prima linea di tensione è dettata dalla necessità, ma poi altre sono dettate dal riscatto sociale, dal desiderio, dal ricordo; si produce così un disegno nel quale emergono luoghi d’affezione che non sempre coincidono con monumenti noti. Da un po’ di tempo le popolazioni sono tornate a formare comunità per salvare, curare, usare spazi dimenticati facendo supplenza o anticipando istituzioni che tardano. Sono segnali da cogliere, da accompagnare, da sostenere, che denunciano la necessità di progetti, che chiedono sperimentazioni tecniche e a volte la modifica della normativa. Mi sembrano segnali importanti perché serve il coinvolgimento di tutti per rispondere alle emergenze che colpiscono il territorio ma anche per dare forma agli spazi del quotidiano in modo tale che questi corrispondano al meglio alla vita di tutti i cittadini.
Ritiene siano indice di una crescente consapevolezza sulle potenzialità di questo patrimonio o potrebbe trattarsi di una “tendenza” legata alla fase storica attuale, destinata a non strutturarsi in un processo compiuto e duraturo?
È un ritorno d’attenzione verso l’architettura e il paesaggio che necessita di essere accolta, sistematizzata e trasformata in processi e strumenti. Tornando a Venezia: a novembre dell’anno scorso, il giorno dopo la grande acqua alta tutti (i cittadini, gli studenti, anche i turisti) erano impegnati a risollevare la città. È una scena che abbiamo visto ripetersi in altre situazioni e contesti. Questo desiderio di curare insieme lo spazio può superare l’emergenza e diventare un grande laboratorio del progetto.
‒ Valentina Silvestrini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati